Caffè Letterario
Pungitopo
Salvatore Quasimodo



 

Che vuoi, pastore d'aria?

Ed è ancora il richiamo dell'antico
corno dei pastori, aspro sui fossati
bianchi di scorze di serpenti. Forse
dà fiato dai pianori d'Acquaviva,
dove il Plàtani rotola conchiglie
sotto l'acqua fra i piedi dei fanciulli
di pelle uliva. O da che terra il soffio
di vento prigioniero, rompe e fa eco
nella luce che già crolla; che vuoi,
pastore d'aria? Forse chiami i morti.
Tu con me non odi, confusa al mare
dal riverbero, attenta al grido basso
dei pescatori che alzano le reti.

Sulle rive del Lambro

Illeso spari da noi quel giorno
nell'acqua coi velieri capovolti.
Ci lasciarono i pini,
parvenza di fumo sulle case,
e la marina in festa
con voce alle bandiere
di piccoli cavalli.

Nel sereno colore
che qui risale a morte della luna
e affila i colli di Brianza,
tu ancora vaga movendo
hai pause di foglia.

Le api secche di miele
leggere salgono con le spoglie dei grani,
già mutano luce le Vergilie.

Al fiume che solleva ora in un tonfo
di ruota il vuoto della valle,
si rinnova l'infanzia giocata coi sessi.

Mi abbandono al suo sangue
lucente sulla fronte,
alla sua voce in servitú di dolore
huuesta nel silenzio del petto.
putto che tni resta è già perduto:

Nel nord della mia isola e nell'est
e un vento portato dalle pietre
ad acque amate: a primavera
apre le tombe degli Svevi;
i re d'oro si vestono di fiori.

Apparenza d'eterno alla pietà
un ordine perdura nelle cose
che ricorda l'esilio
Sul ciglio della frana
èsita il macigno per sempre,
la radice resiste ai denti della talpa.
E dentro la mia sera uccelli
odorosi di arancia oscillano
sugli eucalyptus.

Qui autunno è ancora nel midollo
delle piante; ma covano i sassi
nell'alvo di terra che li tiene;
e lunghi fiori bucano le siepi.
Non ricorda ribrezzo ora il tepore
quasi umano di corolle pelose.

Imitazione della gioia

Dove gli alberi ancora
abbandonata piú fanno la sera,
come indolente
è svanito l'ultimo tuo passo,
che appare appena il fiore
sui tigli e insiste alla sua sorte.

Una ragione cerchi agli affetti,
provi il silenzio nella tua vita.
Altra ventura a me rivela
il tempo specchiato. Addolora
come la morte, bellezza ormai
in altri volti fulminea.
Perduto ho ogni cosa innocente,
anche in questa voce, superstite
a imitare la gioia.

Sillabe a Erato

A te piega il cuore in solitudine,
esilio d'oscuri sensi
in cui trasmuta ed ama
ciò che parve nostro ieri,
ora è sepolto nella notte.

Semicerchi d'aria ti splendono
sul volto; ecco m'appari
nel tempo che prima ansia accora
e mi fai bianco, tarda la bocca
a luce di sorriso.

Per averti ti perdo,
e non mi dolgo: sei bella ancora,
ferma in posa dolce di sonno:
serenità di morte estrema gioia.

Oboe sommerso

Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.

Un òboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;

in me si fa sera :
l'acqua tramonta
sulle mie mani erbose.

Ali oscillano in fioco cielo,
làbili : il cuore trasmigra
ed io son gerbido,

e i giorni una maceria.


Angeli

Perduta ogni dolcezza in te di vita,
il sogno esalti; ignota riva incontro
ti venga avanti giorno
a cui tranquille acque muovono appena
folte d'angeli di verdi alberi in cerchio.

Infinito ti sia; che superi ogni ora
nel tempo che parve eterna,
riso di giovinezza, dolore,
dove occulto cercasti
il nascere del giorno e della notte.

(Ed è subito sera, Mondadori, 1942)

Alle fronde dei salici

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.


Neve

Scende la sera: ancora ci lasciate,
o immagini care della terra, alberi,
animali, povera gente chiusa
dentro i mantelli dei soldati, madri
dal ventre inaridito dalle lacrime.
E la neve ci illumina dai prati
come luna. Oh, questi morti. Battete
sulla fronte, battete fino al cuore.
Che urli almeno qualcuno nel silenzio,
in questo cerchio bianco di sepolti.

Giorno dopo giorno

Giorno dopo giorno: parole maledette e il sangue
e l'oro. Vi riconosco, miei simili, o mostri
della terra. Al vostro morso è caduta la pietà,
e la croce gentile ci ha lasciati.
E piú non posso tornare nel mio eliso.
Alzeremo tombe in riva al mare, sui campi dilaniati,
ma non uno dei sarcofaghi che segnano gli eroi.
Con noi la morte ha piú volte giocato:
s'udiva nell'aria un battere monotono di foglie,
come nella brughiera se al vento di scirocco
la folaga palustre sale sulla nube.

Uomo del mio tempo

Sei ancora quello della pietra e della fionda;
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
– t'ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all'altro fratello:
«Andiamo ai campi ». E quell'eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.


Visibile, invisibile

Visibile, invisibile
il carrettiere all’orizzonte
nelle braccia della strada chiama
risponde alla voce delle isole.
Anch’io non vado alla deriva,
intorno rulla il mondo, leggo
la mia storia come guardia di notte
le ore delle piogge. Il segreto ha margini
felici, stratagemmi, attrazioni difficili.
La mia vita, abitanti crudeli e sorridenti
delle mie vie, dei miei paesaggi,
è senza maniglie alle porte.
Non mi preparo alla morte,
so il principio delle cose,
la fine è una superficie dove viaggia
l’invasore della mia ombra.
Io non conosco le ombre.

Un arco aperto

La sera si frantuma nella terra
con tuono di fumo e l’assiolo
batte il tu, dice solo
il silenzio. Le isole alte, scure
schiacciano il mare, sulla spiaggia
la notte entra nelle conchiglie.
E tu misuri il futuro, il principio
che non rimane, dividi con lenta
frattura la somma di un tempo già assente.
Come la schiuma s’avvinghia
ai sassi, perdi il senso dello scorrere
impassibile della distruzione.
Non sa la morte mentre muore
il canto chiuso del chiù, tenta intorno
la sua caccia d’amore, continua
un arco aperto, rivela la sua
solitudine. Qualcuno verrà.

Un gesto o un nome dello spirito
Vita pirata, hai alzato il gran pavese
entrando nel mio mare a disperdere
insanguinare, sotto il filo della tua ascia
tambureggiante, speranze,
identità tra sogno e giorno
visibile. E spari la cavalletta
dei papaveri e il ghiro appeso ai faggi,
lo strumento a corda e la lira a lamina
vocale degli aedi, ma non i miti
protettori dei pensieri. E l’amore
cortese fu a lungo pronunce, arbìtri
rozzi, furori. Io vedo da una collina
di tufo e di conchiglie, e ronda il mare,
il mio sguardo infantile di rancore.
Mi hai strappato ogni primogenitura
bivaccando sotto la mia anima.
Ma se anche tu avessi dato un saluto
d’incontro felice col tuo segnale
alle mie pietre, agli animali, agli alberi,
non una parola interna avrei mutato
del mio ieri o futuro. Nemmeno tu
decidi un gesto o un nome dello spirito,
grossolano pirata
di saggezza, inesauribile follia.

I soldati piangono di notte

Né la Croce né l’infanzia bastano,
il martello del Golgota, l’angelica
memoria a schiantare la guerra.
I soldati piangono di notte
prima di morire, sono forti, cadono
ai piedi di parole imparate
sotto le armi della vita.
Numeri amanti, soldati,
anonimi scrosci di lacrime.

Altra risposta

Ma che volete pidocchi di Cristo?
Non accade nulla nel mondo e l’uomo
stringe ancora la pioggia nelle sue ali
di corvo e grida amore e dissonanza.
Per voi non manca sangue
dall’eternità. Soltanto la pecora
si torse al suo ritorno con la testa
brulla e l’occhio di sale.
Ma non accade nulla. E già è muschio
la cronaca ai muri della città
d’un arcipelago lontano.


(Tutte le poesie, Mondadori, 1978)

Discorso sulla poesia

I filosofi, i nemici naturali dei poeti, e gli schedatori fissi del pensiero critico, affermano che la poesia (e tutte le arti), come le opere della natura, non subiscono mutamenti né attraverso né dopo una guerra. Illusione; perché la guerra muta la vita morale d’un popolo, e l’uomo, al suo ritorno, non trova piú misure di certezza in un modus di vita interno, dimenticato o ironizzato durante le sue prove con la morte.
La guerra richiama con violenza un ordine inedito nel pensiero dell’uomo, un possesso maggiore della verità: le occasioni del reale incidono nella sua storia. Valéry, nel 1918, chiude un periodo della poesia francese, e Apollinaire ne inizia un altro, quello moderno. L’egemonia della presenza dannunziana (e il poeta era stato il consapevole divulgatore di squilli d’arme) crolla appunto in quell’anno, mentre comincia la reazione alla sua poetica, al suo linguaggio. Nel 1945 s’insinua il silenzio nella scuola ermetica, nell’estremo antro pastorale fiorentino di fonemi metrici. Da allora, s’è aperto un processo alle “attese”. Maturità d’una lingua o decadenza? La critica non può rispondere alla domanda, e tenta bilanci o pseudostorie della poesia fra le due guerre, significandone i rapporti con una tradizione umanistica. Sono pietre tombali provvisorie, che un giorno saranno risollevate per subordinare la cronaca delle ceneri formali alla storia dell’uomo poetico contemporaneo. Inasprita in un metodo astratto o saturata metodologicamente, una parte della critica ha sollecitato da piú d’un ventennio il “gusto” per riconoscere o negare una poesia. Larga di vizi romantici, ha avvicinato le “forme”, credendo di sottrarsi allo svolgimento critico crociano. Attraverso deformazioni sapienti (il falso modulo delle “generazioni”, per esempio), una recente antologia della “lirica del novecento”, irrigidisce in un museo familiare, dal 1905 al 1945, alcune figure di poeti (dai crepuscolari alle punte e code ermetiche) in una sequenza animata verbalmente, ma priva di una costruzione sistematica. La critica ermetica, di cui anche Luciano Anceschi ha legato i primi nastri rosa di nascita, iniziò, mi pare, i suoi esercizi di lettura intorno al 1936 con uno studio di Oreste Macrí sulla poetica della parola nella mia poesia. Il filosofo dimostrava un suo entusiasmo per un metodo filologico: forse era quella la via giusta, seguendo la lezione della storia, per arrivare a una conclusione sulle origini del linguaggio poetico italiano di oggi. Anceschi, facendo risalire prima al Campana nei Lirici nuovi e poi ai crepuscolari il tempo delle prime conversioni antidannunziane e le timide sillabazioni d’una nuova ars poetica, per avvicinare le “rotture” di Ungaretti (dell’Allegria, per intenderci, che non è ermetica) a una probabile linea tradizionale, ha seguito gli insegnamenti del suo maestro Giuseppe De Robertis. Una prospettiva di lettura sfocata e barocca, conduce il critico, su quelle premesse, a determinazioni incerte, a documenti allarmanti sulla validità (la scelta, appunto, è un atto critico) d’un periodo poetico della storia letteraria italiana, concreto e positivo. Chi attendeva, con ambizione, all’indagine dei novatori, anziché esemplificare una “semantica dei costrutti” (delle immagini, chiariamo) per stabilire le origini d’una scuola ermetica (e scuola c’è stata, non si può negare), è risalito, per ragioni particolaristiche, alle geometrie astratte dell’arte pura, all’arcadia o spiritualistica o stilistico-evocativa, secondo la tollerata provincia dell’autonomia formale. Si denuncia cosí l’assenza d’un orientamento critico verso la poesia recente, quella poesia che l’ultima guerra ha cristallizzato, mentre le sforzature dei minori ritorcevano nuovi simbolismi e sentenze esistenziali contro il silenzio dei poeti. E stata una critica per emblemi? Di stretto formalismo? I risultati sfuggono in induzioni approssimative. Qui i crepuscolari, là i futuristi, e là ancora i vociani : una cronaca che non sa distinguere la poesia dalla letteratura. I poeti, infatti, fanno la loro apparizione come motivi accertabili d’un movimento letterario, continuano una fase interrotta in precedenza, dall’”ombra” Corazzini, dal simulacro Campana, dal lemure Sbarbaro. I fantasmi ci ripetono che molti secoli di poesia italiana portano le animazioni preziose dell’Arcadia. Una fioritura di voci smorzate dai Comuni, dalle Signorie, dai Principati, dalle Corti, dai poteri religiosi. Eredità d’incontri generici, dove il poeta è “l’amante disamato” per cifre, tra fuoco e gelo, puntuali come la morte. Ecco il poeta, un uomo di rischi sentimentali, una natura inferiore sospesa nell’amore, che altri, tutti gli altri, invece, possiedono, ricchi di nomenclature psicologiche: la concitazione estetica, appunto, e dottrinaria, che lascia salvi nel tempo, dalle origini della nostra letteratura, sette, otto poeti, sette, otto uomini. Per fedeltà, dunque, alle operazioni tradizionali, negli spazi, piuttosto, della vox letteraria, tranne due o tre esempi sufficienti e comunicabili, la critica suscita, se mai una domanda: Chi sono questi poeti, e che cosa rappresentano nel mondo contemporaneo? Giocano con le ombre in pure forme d’arte, o, attraverso uno svolgimento di conoscenza e le temporali determinazioni, congiungono vita e letteratura? L’itinerario critico è necessario. La guerra ha sorpreso un linguaggio poetico che maturava una partecipazione con gli oggetti della terra per raggiungere l’universale. Le allegorie si erano dissolte nella solitudine della dittatura. La critica ha preferito le soluzioni intellettuali del processo poetico: nei simboli e nei barocchi petrarcheschi ha creduto di individuare le persone poetiche, l’esistere della parola formante.
Ma la letteratura “si riflette”, mentre la poesia “si fa”. Il poeta non esiste come partecipazione letteraria se non dopo la sua esperienza d’ “irregolare”. Naturale e innaturale frattura d’una consuetudine metrica e tecnica, il poeta modifica il mondo con la sua libertà e verità. La voce di Omero esiste prima della Grecia, e Omero “forma” la civiltà della Grecia. « La storia delle forme come storia della parola » non esaurisce, poi, anche quando fosse compiuta, la storia dei poeti. Il poeta è un uomo che s’aggiunge agli altri uomini nel campo della cultura, ed è importante per il suo “contenuto” (ecco la grave parola) oltre che per la sua voce, la sua cadenza di voce (subito riconoscibile se imitata).
Il poeta non “dice” ma riassume la propria anima e la propria conoscenza, e fa “esistere” questi suoi segreti, costringendoli dall’anonimo alla persona. Quali sono dunque le parole di questi poeti fra le due guerre? Hanno essi diritto alla patria contemporanea e sono maestri, o sono pellegrini, invece, osservanti operazioni di stile, categorie letterarie spente? Nessuno ci ha detto questo, e i critici cifrati (molti fra le due guerre) hanno ripetuto schemi non specifici, similitudini piú che immagini di uomini. La poesia è l’uomo, come ho detto : e quelle carte enumerate dal “gusto” sono appena un’introduzione al dramma d’una parte della storia d’Italia, appunti da svolgere. La logica della fantasia, come critica, non può affrontare la poesia, perché la poesia non “misura” buone invenzioni, non essendo impegno della menzogna, ma della verità.
Nel 1945, alla critica formalista, empirica e fluttuante, e incerta nel districare giudizi, si affiancava, seppure limitata, una critica della realtà effettiva, non ancora marxista, ma tendente alle formulazioni ortodosse di questa. Rimasta nel “limbo” enciclopedico delle varie tendenze estetiche, la storia della poesia fra le due guerre, è scesa ad altro esame piú scientifico. Di un’estetica non sistemata (anche l’estetica marxista è in movimento, e si vale di scritti di Marx e di Engels sull’arte e la letteratura, che vogliono essere interpretati nello svolgimento del pensiero critico contemporaneo) conosciamo le avventurose macchine teoretiche; dal sorgere d’una nuova concezione del mondo, aspettiamo ricerche piú battute dalla presenza dell’uomo. La nuova generazione, dal 1945, sempre per le ragioni storiche accennate all’inizio del mio discorso, reagendo alle poetiche esistenti, s’è trovata improvvisamente senza maestri apparenti per poter continuare a scrivere poesia. Esclusa la tradizione umanistica, di cui ha riconosciuto la maturità, se non l’impassibilità, ha iniziato una condizione letteraria che non potrà che suscitare meraviglia in quanti si interessano alla sorte della cultura italiana. La ricerca d’un nuovo linguaggio coincide, questa volta, con una ricerca impetuosa dell’uomo: in sostanza, la ricostruzione dell’uomo frodato dalla guerra, quel “rifare l’uomo” a cui accennavo, appunto nel 1946, non in senso moralistico, perché la morale non può costituire poetica. Un nuovo linguaggio poetico, quando ancora un altro sta per raggiungere la sua maturità, presuppone una violenza estrema. La critica formalista (e non solo questa) dinanzi ai documenti poetici della nuova generazione, parla di “stile da traduzione”, considerando dalle forme esterne (ametriche e prosastiche, talvolta) un desiderio di “discorso” nelle articolazioni poetiche.
Ma “stile da traduzione”, vuol significare anche imitazione di poetiche e spiriti stranieri? È un punto da chiarire. Per reazione all’Arcadia tradizionale, alle contaminate esercitazioni elegiache amorose, al petrarchismo rinato, sorge il primo lessico d’una nuova poesia (il lessico della poesia fra le due guerre, era stato individuato, con un’indagine rigorosa, da Francesco Flora) che ha nelle rese sintattiche movimenti larghi di ritmo e di “forme”, Forse esametri sbagliati, che rispondono a una “presunzione” di genere letterario. Siamo alla fioritura di una poesia sociale, cioè che si rivolge ai vari aggregati della società umana. Non poesia sociologica, perché nessun poeta sogna di fare del sociologismo, richiamando le forze dell’anima e dell’intelligenza. Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, hanno scritto poesie sociali, poesie necessarie in un dato momento della civiltà. Ma la poesia della nuova generazione, che chiameremo sociale, nel senso che s’è detto, aspira al dialogo piú che al monologo, ed è già una domanda di poesia drammatica, una elementare “forma” di teatro. Il Contrasto di Ciullo d’Alcamo e i Lamenti della scuola siciliana possono chiarire una condizione di “rottura” (riferita allora alla scuola provenzale – altra arcadia al di là dei pochi poeti). Drammatica o epica (in senso moderno), forse potrà essere la nuova poesia. Non gnomica o sociologica, ripeto. La poesia civile, si sa, ha ripidi trabocchetti, e qualche volta ha giocato con gli “estetismi” d’un popolo. Ricordiamo Tirteo, che invita i giovani a combattere in prima linea per la patria, perché il cadavere d’un vecchio è brutto da vedere, mentre è bello sempre il corpo d’un ragazzo morto. La nuova generazione è davvero engagée in ogni senso nel campo letterario. I nuovi “contenuti” pesano, ma il contenuto è condizionato al corso della storia. Il poeta sa, oggi, che non può scrivere idilli o oroscopi lirici. Per fortuna, non ha un’assidua volgarizzazione critica coetanea e parallela che lo perseguiti con indici di soluzioni piú o meno probabili, come è avvenuto nell’ultimo periodo poetico: una critica che anticipi le soluzioni poetiche, una filosofia padrona della poesia. Hegel scrisse che l’arte moriva, perché si risolveva nella filosofia, cioè nel pensiero, e oggi può sembrare che la poesia tenda a scomparire nel “pensiero” della poesia. Ritornando, intanto, a quello “stile da traduzione” indicato con disprezzo come tessuto della poesia intorno al 1945, notiamo che, tanto la critica dei valori formali, quanto l’altra, inerente al materialismo storico, intendono con ciò indicare un “modo”, un linguaggio che si ricava immediatamente traducendo un testo poetico di lingua straniera. È proprio vero o non è, piuttosto, una formulazione approssimativa intorno a un “gusto” di parlare del mondo e delle cose del mondo con una nuova tecnica, che prelude a un linguaggio concreto, che riflette il reale, spostando i piani delle rettoriche? La nostra tradizione poetica è apparsa sempre al lettore straniero come un impenetrabile spessore di schemi, dove l’uomo giochi il suo tempo migliore in occasioni elegiache, distaccato dalle autentiche passioni intrinseche alla sua natura. Dopo quarant’anni di silenzio critico intorno alla poesia italiana, l’Europa ha ricominciato a leggere le nostre carte poetiche: non sono le ermetiche, di scuola, ma quelle che rispondono o pongono domande agli uomini; sono poesie del ’43, del ’44, del ’45, e ancora piú vicino a noi. Questo interesse è dovuto a una proiezione di sentimenti e oggetti comuni all’uomo di oggi? Sarebbe, dunque, un’attenzione di specie etica e problematica? Non credo: sono proprio le “ragioni formali”, le meno appariscenti, ora, a noi, a comprendere la nostra poesia nella partecipazione umana del mondo. Rapporti non d’esercizio linguistico, ma di responsabilità poetiche, che s’erano oscurate dopo Leopardi. È il segno d’una presenza attiva della nostra civiltà, e, con essa, dell’uomo italiano (questa, la vera tradizione, al di là dei flauti cortesi della natura sottomessa all’Arcadia perenne). Il segreto d’un linguaggio poetico si rivela tardi alla critica, quando, cioè, il modello si dirama nella imitazione, e la memoria migliore di esso si frantuma nella scuola: allora i poeti minori propongono, in funzione di bellezza, equilibrate tecniche letterarie, sovrapposte alle ripetizioni di immagini “comuni”, non piú originali. L’uomo qual è, è il contenuto d’una poetica deterministica? Per le esperienze poetiche di questi ultimi anni, s’è parlato di “realismo etico”, ammesso il reale (o la verità) nella rappresentazione, e l’ “etica”, nella finalità. Facile, schedare; ma l’esistenza avversa, l’asprezza della sua mente politica, l’opposizione al dolore, hanno avvicinato l’uomo all’uomo, il poeta, dicevo, all’uomo che l’ascolta. Talvolta, il poeta moderno è eloquente (l’antica eloquenza incitativa ha altra voce traslata), sembra, cioè, che discorra col mondo raccolto in un paesaggio ristretto (la sua terra) : eloquente, anche se il suo tono è basso, familiare. Sono uomini del Sud, spesso; della Lucania, degli Abruzzi, delle Puglie, delle isole, ma anche del Piemonte, del Veneto, che, avuta una eredità terragna e feudale, aprono i loro dialoghi dritti e netti sulla loro sorte. Non hanno infanzia, né memoria di essa, ma catene ancora da rompere e concrete realtà per entrare nella vita culturale della nazione. Le muse dei boschi e delle valli tacciono in loro: rigurgitano invece i boati delle frane e delle alluvioni per le loro mitologie contadine. Faremo un giorno una carta poetica del Sud; e non importa se toccherà là Magna Grecia ancora, il suo cielo sopra immagini imperturbabili d’innocenza e di sensi accecanti. Là, forse, sta nascendo la “permanenza” della poesia. Per fortuna, non hanno letteratissimi poeti dialettali a ridurli nello spazio di bozzetto, e le loro “migrazioni” sintattiche e linguistiche portano già un lessico particolare, l’annunzio d’un linguaggio. In Toscana, purtroppo, c’è ancora qualche Guittone d’Arezzo, che alleva alla sua dottrina preziosa le ultime chimere dei possedimenti dell’assenza, dove gira il tornio esistenziale. In quell’altra geografia poetica e popolare (minima, dicono i critici) è fedele la presenza dell’uomo, i suoi sentimenti, i gesti, le opere. Non parleremo di realismo etico : non insegnano, i poe. ti, che a vivere: la materia è assai difficile da costringere in nuove forme. Spezzare e ricostruire la misura dell’endecasillabo è stato un impulso meditato e svolto durante una generazione. Era accidentale perdita della facoltà di lettura ritmica, secondo la scrittura metrica tradizionale. I poeti si riconoscono per la particolare pronuncia delle misure metriche, e in quella cadenza consiste la loro voce (il canto, diciamo) ; e l’unità di espressione può essere lunga di iumeri o breve, ma sempre quella “voce” sarà rivelabile in qualsiasi struttura. Abbiamo una voce per ogni poeta, e anche in quello “stile da traduzione”, ciò che importa è la pronuncia poetica.
Per il linguaggio del “reale”, in un mio studio su Dante, mi richiamavo alla durevole forza del “semplice stile”. Era un riferimento anche d’intensità, perché il linguaggio della Commedia, se aveva avuto le proprie basi nel dolce stilnovo, si era purificato al contatto dei contenuti umani e reali. Le figure dantesche miravano a un dramma che non era piú quello del mondo classico, benché il modo di rappresentare le figure (o la loro invenzione) aveva radici riflesse. La lezione di Dante è servita a Petrarca e ai maggiori del cinquecento: era davvero un segno alto della civiltà letteraria italiana. E non è solo in una direzione che, oggi, possiamo leggere Dante per dimenticare Petrarca e le sue ossessive cadenze rispecchiate nel poco spazio assegnatogli dal sentimento. La poesia sociale di Dante, il suo al di là, infine, nel paesaggio della terra, suscita ancora dei dubbi o può essere il punto “legale” di partenza per i nuovi poeti? Lo “stile da traduzione” può sorprendere chi è abituato al movimento unico della lirica; ma inizia un discorso insolito nella poesia italiana, rompe per sempre gli accostamenti armoniosi con le Arcadie. Creerà, magari, altre rettoriche, ma toglierà la servitú alla nostra poesia, già entrata, da poco, nel dominio letterario dell’uomo europeo, fino a ieri difeso da mura di silenzio; le stesse mura che la critica italiana ha alzato intorno a questa poesia. Al di là di esse, talvolta, la critica ricerca i maggiori della nuova tendenza, con le antiche misure estetiche (non tutte, però) e non riconosce che “contenuti”, giudizi, speranze. I sogni non sono che rumori della vita, risposte crudeli alle domande piú consuete e turbate. E le forme? Dove il « dolce color d’oriental zaffiro », la « fresca aura dei lauri »?
La critica, le due critiche, teorizzano, e vorrebbero creare i poeti secondo i limiti delle loro idee sull’arte, credendo di poter ridurre la poesia a scienza, mentre sanno che sarà il poeta, poi, a costringere la loro scienza a piegarsi alla sua natura di “irregolare”.
Le ragioni del mio discorso possono sembrare polemiche, anche riguardo alla mia condizione poetica, ma i documenti della futura storia letteraria del ’900 (ne ho citato due, di natura antologica) sono testimonianze mediocri, cataloghi di artigianato letterario. I poeti – cito parole di Croce – « sono poco disposti alla considerazione organica e filosofica, ma acuti e fini in questioni particolari »; e possono quindi discutere sugli esempi resi dagli antologisti, e discriminare, se non altro, letteratura da verità, cioè da creazione poetica; e considerare la figura del poeta nel mondo contemporaneo, nel suo tentativo di congiungere la vita alla letteratura. Il rapporto vita–arte è al centro dei problemi del pensiero moderno: ma il poeta – l’ho chiamato altrove “imperfezione della natura” – perché ha aperto un dialogo con l’uomo, viene respinto dai supremi ordini estetici. « Chiare, fresche, dolci acque! » E fosse tempo, questo, di cosí care sillabazioni, e quella della memoria, ancora, una poetica attiva per rivedere il mondo nelle sue gentili misure e affetti. Qui, ora, la presente generazione che osa leggere nuovi numeri nelle tavole poetiche, impara, giorno per giorno, che cosa significhi scrivere versi – cosí facile prima delle risse civili e politiche. Gramsci vedeva con occhi chiari dal buio della sua prigione le ragioni “letterarie” del mondo. La posizione del poeta non può essere passiva nella società: egli “modifica” il mondo, abbiamo detto. Le sue immagini forti, quelle create, battono sul cuore dell’uomo piú della filosofia e della storia. La poesia si trasforma in etica, proprio per la sua resa di bellezza: la sua responsabilità è in diretto rapporto con la sua perfezione. Scrivere versi significa subire un giudizio: quello estetico comprende implicitamente le reazioni sociali che suscita una poesia. Conosciamo le riserve a queste enunciazioni. Ma un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente. E poesia è libertà e verità di quel tempo e non modulazioni astratte del sentimento. Ora, fare il processo alle “attese”, da parte della critica, in un periodo di formazione poetica come quello attuale, è assurdo, soprattutto quando si prospettano nuove teorie estetiche, e la continuazione d’una scuola poetica esaurita può dare una sensazione di “durata”. La guerra ha interrotto una cultura e proposto nuovi valori dell’uomo; e se le armi sono ancora nascoste, il dialogo dei poeti con gli uomini è necessario, piú delle scienze e degli accordi tra le nazioni, che possono essere traditi. La poesia italiana, dopo il ’45, è di natura corale, nella sua specie; scorre per larghi ritmi, parla del mondo reale con parole comuni; talvolta presume all’epica. Ha sorte difficile per la sua apertura verso forme che negano la falsa tradizione italiana. I suoi poeti scontano per ora il silenzio fra gli allarmi politici e le cronistorie della decadenza morale.

(Apparso per la prima volta in volume come Appendice a Il falso e vero verde, Mondadori, 1956)

 
Pungitopo pungitopo@pungitopo.com