Home page Galleria
L'autore | La figura | L'opera  

Tano Santoro, di questo giovane maturo artista mi è capitato di interessarmi, non solo più volte, ma fin dai suoi primi passi di pittore in quel di Naso-Capo d’Orlando (antica cittadina la prima, porto di pochi pescatori la seconda) dove la mia personale avventura di artista mi ha portato proprio parecchi anni fa.
Allora il ragazzino Tano, si muoveva da autentico naif tra le difficoltà della vita, e le prime tanto più dure della pittura, che lui affrontava, da puro autodidatta, sulla scia di quel premio di pittura di Capo d’Orlando. L’esempio sempre più vivo, di tanti pittori che gli capitavano fra le mani, è stato sicuramente l’elemento che più lo ha convinto di puntare sulla pittura tutte le proprie energie, e la sua stessa vita. La seconda preziosa avventura è stata per il nostro giovanissimo pittore, incontrare Giuseppe Motti, che se lo portò nel suo studio a Milano; dove per anni fece le buone esperienze per una pittura di ben più larga apertura: un prezioso e forte apprendistato. Da anni ormai il nostro artista, cammina ben da solo nel difficile terreno della pittura milanese; dando via via prove di una sicura maturazione, di una pittura sempre più attenta e genuina; (vera e buona pittura vogliamo dire).

Padova, 1974

Tono Zancanaro


A scorrere le cronache dell’arte d’oggi sembra che la grande differenza tra le espressioni odierne e quelle del passato, stia soltanto o quasi nell’uso di nuove tecniche, nella non oggettualità della figurazione e non si pensa - o troppo poco - che l’artista moderno si distingue dall’antico o da quello dell’ottocento, specialmente per il diverso aspetto e contenuto che egli attribuisce alla figura umana, presa nel gesto del fare l’artista di ieri, definita nella sua immobilità metafisica, che porta oltre le cose del mondo dell’artista non realista di oggi.
E’ il pensiero che viene spontaneo quando si guardano le incisioni in acquaforte di Tano Santoro, un artista di cui altre volte abbiamo rilevato l’unità e l’organicità della visione. La monumentalità delle figure, già tanto sintetica nella sua pittura che sta di mezzo tra la tendenza all’astrarre e a ogni concessione alla psicologia, si accentua ancora di più nell’incisione. Forse perchè Santoro ci ha sempre dato l’impressione di stare fra pittura e scultura, tanto lo spazio e l’architettura delle sue figure fanno sentire un’aspirazione plastica più che pittorica...
Se Santoro fosse vissuto nel periodo del nostro Novecento, la sua arte si sarebbe aggirata tra un ripensamento di Giotto e di Arnolfo di Cambio, in quel clima culturale che fu caro a Carrà. Essendo Santoro ben al corrente di ciò che si è svolto di poi ed avendo una natura profondamente siciliana, con un senso ben altrimenti arcaico della luce rispetto a quello dei pittori del nord, il nostro artista non cade nel culturalismo novecentesco.
L’assoluto della sua forma ha sempre la tenerezza che ci tiene lontano dallo schema. Eppure il suo lavoro è di studio, di atelier. Non conosco un altro artista più lontano dall’improvvisazione. Non mi immaginerei mai Santoro a caccia di motivi, con una scatola di pastelli o acquerelli, che furono la ripresa fotografica del motivo del Sette-Ottocento.
...La tecnica dell’incisione ha perciò in Santoro il gusto della lastra, non solo, ma quello stesso dell’impressione su carta, essendo affidata la composizione al gioco congiunto della lastra e della stampa. Si guardi com’è stemperata la luce a modellare la forma, mentre l’imprimitura crea tutta l’area che chiamiamo atmosfera. La stessa dimensione dell’immagine sul foglio ha un significato, perchè anche il vuoto della carta intorno ha il suo senso.
Per decenni incisori come Fattori o Fontanesi ricercarono l’altezza severa della visione durevole nella natura stessa; oggi incisori come Santoro ricreano questo stesso senso nel monumentale arcaico che si ripresenta con rinnovata suggestione nel desiderio di eterno che sta al fondo della psiche di ogni uomo.
Le lastre durevoli di Santoro, Milano 1980

Raffaele De Grada


...Ma se trovo nelle figure e nei paesaggi di oggi un riscontro stupefacente a queste ipotesi riscontro reso fantastico dalla tendenza al monocromo di una tavolozza che è intervenuta sul segno delicatamente, giusto per sottolineare certe atmosfere rarefatte nelle quali il pittore mette insieme la poesia e le invenzioni formali - devo dire che si tratta di sensazioni in parte viziate da una breve lontana esperienza visiva, personale. Il mirabile gioco di equilibri che si impone nella impaginatura, infatti, non solo discende da una scuola e da una disciplina rigorosissime ma è anche il frutto d’una ricerca testarda, persino ossessiva, di evasione dagli schemi pittorici scontati che affollano il tempo nostro. E’ sete di conquiste che solo l’invettiva può soddisfare. E in Santoro è ancora la padronanza assoluta del segno a compiere di volta in volta quel miracolo creativo che è miracolo certo e puntuale come quello dell’alba che per l’eterno squarcia e dissolve le tenebre.
Firenze, 1989

Tommaso Paloscia


 

 

 

 

 

 

 

 

 

La figura è semplice, di antica e possente astanza, ma la sua struttura è ricca e tormentata. Il gesto è sobrio e misurato e sembra subito ricomporre il moto sull'asse centrale e verticale della forma. La tensione psichica è sottile ma assai forte e c'è sempre un lontano del tempo e dello spazio che fa da contrappunto alla figura. L'accadimento poetico vero non sta nel gesto della figura ma nell'enigma della sua tensione verso il lontano.Tale enigma è costruito con una straordinaria varietà di segni. Ora tagli e spaccature profonde ora capillari e segmenti e punti infinitesimi. Assieme, tutti questi segni fanno un flusso fantastico (dove circola un'energia infinita. C'è qualcosa, della struttura formale e della psicologia, in queste figure e che è a un tempo antico e modernissimo. Antico nel senso che discende dalla tensione aurorale bloccata nelle forme dei Kouròi e delle Korài dei Greci che muovono sorridendo un piccolo passo per le strade del mondo. Modernissimo nel senso che discende dalle figure di Alberto Giacometti che, per quanto consunte dall'attrito col mondo, rimettono sempre il piede in cammino oppure si fanno albero contro la tempesta che arriva.
Tano Santoro non è minimamente un pittore e incisore illustrativo e che fa raccontini magari hen variati per la gioia dell'occhio davanti alla luce brillante dei colori. E', invece, come pittore e come incisore, un costruttore di forme con una grande sensibilità amorosa e ansiosa per il destino dell'essere umano. Ogni figura si stacca dalla terra quasi avesse radici e tiene il suo spazio di libertà e lo difende con bella energia. L'eros, la vitalità e la resistenza umana della figura per restare umana stanno "scritte" dal suo segno sensibile e magnifico: segno che spesso appare come la traccia del meteorite che ha colpito o ha strisciato violentemente la forma. Un'avventura poetica esistenziale del segno è davvero una grande e continua scoperta: io mi sono trovato a guardare le immagini di questa stupenda cartella come si guardano le lastre che gli scienziati espongono al bombardamento delle particelle atomiche e subatomiche. Voglio dire che la traccia del segno che ha inciso la lastra e, poi, stampato il foglio è la rivelazione stupefacente di tanti accadimenti della vita che il nostro occhio abitudinario non percepisce.
Ricordo di aver visto, alcuni anni fa, provenienti dalle raccolte di Dresda, alcune acquaforti riunite in serie e che offrivano i ritratti del volto di Rembrandt da giovinetto vegliardo. Ogni acquaforte non era più grande di un francobollo: con l'aiuto di una grossa lente scrutai i ritratti uno per uno e rimasi scioccato nel vedere che ogni testa era come un pianeta scolpito e solcato da mille e mille meteroriti e che il micro della tecnica conteneva il macro di gran di pensieri poetici. Questo piccolo ricordo per dire che mi sono messo a seguire, nei fogli di Tano Santoro, l'avventura dei segni e mi sono trovato in un mondo imprevedibile ( supremo che è quello della realtà non abitudinaria e della coscienza dei fenomeni esistenziali e sociali.
Tano Santoro è siciliano e lavora da anni a Milano, della nativa e naturale solarità ha fatto una solarità concettuale Nella solarità lavora un tarlo melanconico che è il tarlo dell'attrito con la realtà e della resistenza che l'essere umano fa per restare uomo: ecco l'affinità con Giacometti. Mi ricorda Tano Santoro quel che racconta Giacometti a proposito dell'esecuzione di un ritratto del fratello Diego: a forza di fissare la distanza tra la radice del naso e l'occhio il piccolo spazio gli parve immenso, così immenso da diventare un Sahara incolmabile; e dette un urlo di sgomento. Questo per dire la difficoltà tutta contemporanea del costruire oggi una figura che sia vera e credibile nel suo essere, nella sua astanza, nella flagranza di apparizione rivelatrice e di dominio anche di un piccolo spazio Iibero di vita. Tano Santoro costruisce nella luce dello spazio le sue figure filamento per filamento.
La figura umana punta verso l'alto come un albero o una colonna o una volta in costruzione.Varia molto la figura femminile: come non ricordare Umberto Boccioni e il suo amore per la figura della vecchia madre con le mani in grembo dalle incisioni e disegni prefuturisti al grande quadro futurista "Materia" anche per Tano Santoro il corpo è il luogo dell'accadimento poetico, il Iuogo della battaglia e della costruzione dell'essere umano che resiste. Tormcntata che sia la sua solarità non s'abbuia mai: prende a volte aspetti drammatici sottolineati dal nero notturno e di seta degli inchiostri: ma più generalmente si distende in un concetto spaziale come nella bellissima figura femminile, ripetuta due volte, che dialoga con gli uccelli o come nell'altra figura fèmminile, veramente suprema, che guarda il sole lontano e si fa calma e serena dominatrice umana di uno spazio immenso e che il segno ha conquistato millimetro per millimetro giocando a meraviglia col pieno c col vuoto, con la variata morsura e col bianco incontaminato. E' favoloso, in questa incisione come il bianco della carta si faccia luce. Sulla natura poetica di questa luce che è solarità cosmica ma anche coscienza e illuminazione dell'io profondo, c'è da fare qualche osservazione. Sulla Sicilia e sugli artisti siciliani solari ci sono molti luoghi comuni. In verita più che in altre terre la solarità in Sicilia e inseparabile dal dolore e dalla coscienza della morte. Basterebbe il ricordo del murale di Palazzo Sclafani e il tremendo passaggio siciliano del Caravaggio con la sua tenebra che oscura la solarità.
E come non ricordare l'enigma clic si trascina tante ombre negli scrittori da Pirandcllo a Sciascia? La stessa Sicilia solare dei Greci è enigmatica. Pensate alla divina statua di marmo del giovane fenicio plasmata nel V secolo avanti Cristo e che stava nell'isoletta di Mozia: visto da dietro è fanciulla bellissima: visto davanti è giovane meraviglioso e possente stretto nella sua tunica da mille e mille piegoline che ai suoi piedi fanno una spuma lieve come di dolce onda marina. C'è nelle personalità siciliane grandi che sono passate in continente o in Europa una drammatica coscienza analitica e concettuale clic entra in conflitto con quella che chiamiamo abitudinariamente solarità mediterranea portatrice di eros e di vitalità.
Anche Tano Santoro siciliano a Milano, con le sue figure che sono fiori di zolfo e lapislazzuli, di oro e di acqua marina, di magma vulcanici e di azzurro dei cieli di tutte le stagioni, è artista che porta in se contraddizione e sofferenza esistenziale perché tormentato dalla coscienza del costo umano della crescita e della resistenza umana. Arte e vita sono in lui inesaricabili. Sa stendere, sulla tela e sulla lastra, griglie a maglie larghe e a maglie fitte per raccogliere ogni guizzo (li luce e ogni vibrazione vitale dell'essere.
Cercate di vedere la griglia poetica che sta in ogni figura umana e che raccoglie la luce e la sensualità di ogni giorno. E un modo supremo di un grande incisore/pittore di filtrare il transito solare della luce abituditinaria, giorno dopo giorno, per trasformarla in uno assoluto dell'esistenza e della coscienza.
Ci sono altri artisti a Milano nostalgici della solarità, molto lombardi che sognano un'età dell'oro per le loro figure pietrose e mitiche che aspettano d'essere carezzate dai raggi occidui del sole (forse, sono raggi che ancora discendono dalle immagini di Pellizza, di Segantini, di Morbelli). Per Tano Santoro la solarità non è mitica, non è letteraria, non è citazionistica. E' innanzitutto una situazione aurorale dell'essere che può logorare o esaltare. Voglio sottolineare il tatto che Tano Santoro parte da un primordio e non dalla nostalgia; è primario non citazionista, è esistenziale non sperimentale.

Roma, 29 luglio 1991

Dario Micacchi


...la sostanza profonda del fascino di queste immagini luminose e palpitanti consiste nella loro esemplare e «semplice» misura di verità, nel loro non essere frutto mediato d’un qualche motivo o portato letterario, né tantomeno nel non costituirsi come mimesi o adeguamento a qualche preesistente indicazione diricerca stilistica e linguistica.
Approfondendo l’analisi diremo cioè che la luce ed il segno, la plasticità tattile delle materie nella loro agitata frantumazione e ricomposizione, l’aereo soffio di una costruzione sempre condotta con spiccata sensibilità dinamica sono, tutti, elementi che Santoro ha ricavato e distillato a partire dal suo bagaglio interiore «primordiale».
...
Il suo linguaggio figurale, dunque, appartiene più all’animo che all’occhio, più all’allusività o alla metafora che al racconto. Non è tanto la rappresentazione riconoscibile di figure e forme reali ad interessarlo, quanto piuttosto la definizione, attraverso l’autonoma fascinazione del dipingere, delle vicende amplissime e sempre diverse del rapporto tra la nostra sensibilità ed i materiali emozionali della pittura: un rapporto che nelle deformazioni e trasfigurazioni cui dà luogo, nel gioco della luce scomposta e ricomposta, nell’intensa vibrazione dei colori, definisce luoghi e memorie privilegiate, allusioni fortiad un continuum psicologico che è di Santoro e insieme, in fondo, di tutti noi: del nostro tempo.
Da "Luce, Forma, Memoria", Milano 1994

Giorgio Seveso


Nella pittura e nella produzione incisoria di Tano Santoro si possono rintracciare, rielaborate e trasfuse in un consolidato linguaggio autonomo, talune radici morfologiche e semantiche sia di Bacon - peculiarmente della prima fase creativa - che di Sutherland. Da quest’ultimo ha mutato la predisposizione alla “sostituzione” ed un analogo “organicismo metaforico”, tramite i quali ubicazione paesaggistica e figura umana risultano imbastiti-innervati in un’unica stratificazione organica, come accade in certa pittura informale contemporanea. Soltanto, in sostanza, non definisce mai esplicitamente ossature topografiche o fisionomiche, ma le fa come serpeggiare-brulicare attraverso un fitto connubio tra segno e colore - ora cupo, ora sanguigno, ora solare - in un medesimo compatto tessuto, campito a più strati materici: il più delle volte scalfiti, unghiati, scavati, quasi il pittore volesse farli fremere e dilatarsi in molteplici direttrici pulsionali ed estensive.
Si ricava in tal modo, la percezione di un perpetuo processo osmotico in atto, che contiene biunivocamente strutture archetipe primordiali inerenti agli stessi millenari modelli e alle stesse permutazioni riscontrabili in natura, e trasformazioni immanenti che fanno partre del bagaglio genetico e sociale del presente storico. Questa caratteristica motilmente dinamica è rintracciabile persino nell’opera grafica (puntesecche, acqueforti, acquetinte), spesso di alta qualità espressiva per penetrazione analitica e concisione segnica. Pure qui l’artista incide, taglia, intaglia, deturpa, accorcia i caratteri definitori del contesto iconico per evitare qualsiasi formula descrittiva o didascalica. Eppure niente va perso o dissolto: anzi il paesaggio, il personaggio o l’oggetto vengono come bisturati sul nitore del foglio simili ad inequivocabili tagli nella carne della visione.
L’agnizione baconiana, in Tano Santoro ,scaturisce dalla centralità che assume la figura umana nel connettivo iconografico. Tano Santoro, inserisce i suoi personaggi - pur sempre contraddistinti in una voluta anonimia - in un corpus segnico-cromatico che si dirama, dialetticamente, ai naturali processi fisiologici e storici del divenire della materia e degli accadimenti. E sono materie esistenziali della solitudine.
L’uomo è raffigurato dentro il paesaggio - sia esso habitat od interno abitativo - quasi sempre solo. In un ambiente che sembra aggredirlo e dilaniarlo, senza tuttavia fargli perdere una sotterranea quanto irrefrenabile energia vitalistica di ribellione contro oscure e cieche forze che lo sovrastano. Santoro non ci cala, peraltro, nell’epidermico edonismo di un’utopia “joie de vivre”, ma ci conficca nell’animo gli aculei di una visione tragica della vita; ed il suo canto di “solitudine” non è neppure una forma circolare di solipsismo, al contrario ci appare come la lacerante denuncia di una condizione umana dalla quale trasuda il dramma individuale e collettivo di universale dolore di vivere.
Tano Santoro: Uomo dentro il paesaggio, 1998

Gianni Pre


... Nella pittura, come nell’incisione, Santoro approfondisce continuamente il segno portante che gli consente di reinventarsi le forme, senza mai incappare nello scontato semplicistico: “L’opera non deve mai scadere nel compiacimento”, commenta al contrario, in essa ci devi navigare dentro, entrarci di prepotenza e lasciarti coinvolgere, come in un atto d’amore. Io lavoro molto sul “segno”, il quale determina e caratterizza il tutto. Al rapporto segno colore è legato quindi il mio modo di essere pittore: con esso porto avanti i progetti, per approdare a tele di maggior respiro, cui cerco di infondere un senso d’emozione intensa”. La vasta esperienza gli deriva dal costante lavoro, degli incontri con colleghi e critici. Santoro ama molto viaggiare: “Occorre guardarsi intorno” dice “copiare cosa fanno gli altri: per questo ho visitato musei e gallerie, in Italia e all’estero, con le recenti puntate in Australia e negli Stati Uniti, Ho studiato l’arte antica e la moderna, interessandomi di tutti gli autori che ne hanno segnato la storia nel tempo. E’ da questa lezione a tutto tondo che trae origine la mia continua ricerca pittorica”. Santoro prosegue, con animazione: “Ci sono migliaia di pittori - appunto perchè dipingono - ma la scelta di un pittore nella sua totalità è ben altra cosa: egli, infatti, non deve solo produrre un quadro, ma un’opera che lo rappresenti nella sua forza pregnante e nella sua sensibilità poetica, che lo esponga completamente, mettendone a nudo l’anima”. Un uomo che vive simili prove esistenziali - e lui è tra questi - deve prima di tutto reinventarsi la vita: “vedi” afferma “dietro a tale mondi di intendere e di essere, il pittore-artefice lotta disperatamente perchè ci crede, se poi riesce ad affermarsi e ad ottenere validi riconoscimenti, tanto meglio. "Il resto è vano”, e conclude: “lavoro innanzitutto per me, per soddisfare il mio pensiero: immagino le mie opere esposte in spazi anonimi, ma che riescono a comunicare, in senso universale, il modo di essere dell’autore”.
Mentre parla, Tano si aggira calmo per lo studio, di tanto in tanto mi mostra qualche quadro di grande formato e sembra tagliare l’aria con un gesto largo delle mani, descrivendomi le sue opere, il perchè dello scorrere del colore e delle linee.
... E’ questa sua schiettezza che lo rende autentico: non occorre, infatti, millantarsi, il tempo è galantuomo e il tempo ha lavorato a favore di Tano Santoro, che oggi è considerato un artista originale, con una posizione di esplicito rilievo nella pittura contemporanea. Nell’assoluta totalità, per dirla con l’espressione dei suoi maestri e a lui tanto cara: un motto che l’ha accompagnato sempre - agli esordi come nella maturità - tela dopo tela, lastra dopo lastra.
Da: Tano Santoro: Artista nella totalità, 1998

Giuseppe Possa


Sotto un certo aspetto, Tano è un incisore anche nella pittura. Non soltanto perché in essa tende alla monocromaticità, o comunque su una sensazione di fondo di un certo colore poi assembla gli accordi degli altri che più si confanno sul piano del pathos e su quello dell'armonia compositiva, ma perché la sua mano "agisce" alla stessa maniera: preso e compreso da quell'emozione scatenante, fissa per linee, per tratti, per segni le sue addizioni (materiche persino), come sulla lastra incide segmenti con veemenza. E se i suoi filamenti e le sue sbavature, a volte persino "macchie" lanciate in successione, possono in parte richiamare la tecnica dei divisionisti, è la pittura gestaltica dell'Informale e dell'Espressionismo astratto ad avvicinarsi maggiormente...
Perché, da tipico rappresentante della dissoluzione oggettuale novecentesca, da esponente di quell'ultrasoggettivismo che si può a volte configurare come condanna e stigma di una caduta nel solipsismo, il suo espressionismo segnico non è più rivolto a "narrare" tatti, ma a "esprimere" emozioni.
Ecco perché in conclusione il suo tratto, il suo gesto segnante - in una tensione al sublime che non ha mai requie (sempre insoddisfatta ma sempre instancabile) - si raffrena solo quando, diventato significante, assume circolarmente il punto da cui era partito: cioè trapassa da segno a disegno, essenziale anzi quintessenziale, come nell'incisione dove un solo tratto discendente costruisce una figura virile d'impareggiabile forza sulla distesa bianca del foglio.

Milano, 2002

Sergio Spadaro


...L'immagine nelle sue opere più sensibili e raffinate è sempre il fulcro e il motore per la riscoperta della realtà nelle sue molteplici sfaccettature.
I dati che da essa emergono vengono scomposti e ricomposti in simbiosi con l'intendere, l'indole, la passionalità, la razionalità quindi l'intelligenza con cui l'artista li rivive e li ripropone.
E da questa dinamica che scaturiscono simbologie e metafore che rapportano direttamente "il soggettivo" con "l'oggettivazione" dei dati della realtà.
Soltanto individuando criticamente "quanto" (e come) di soggettivo venga espresso si viene a scoprire la genuinità dell'opera pittorica in esame e la sua profondità più celata. Della pittura di Tano Santoro "il quanto" (e come) di soggettivo si esprime principalmente con il segno e l'emozione a questi rimandata diventa il segnale catalizzante di ogni sua rappresentazione coagulandosi come elemento di contemporaneità.
... Sia nelle rappresentazioni oggettivamente riconoscibili sia dove iinterpretazione "cripta" i dati ambientali e figurativi. La riconoscibilità dell'approfondimento emerge come ossigeno salvifico.
Sia esso esemplificato attraverso il colore o con un segno quasi minimalista e sintesi sempre di un'analisi dell'immagine mai superficialmente emozionale ma sempre mediata e vissuta.
... Nella pittura e quindi nell'arte di Tano Santoro questa dialettica viene messa in evidenza con la scelta continua di tematiche che rappresentano la contemporaneità del vissuto proiettato in un evento storico sempre attuale anche se gli "strumenti" che egli sceglie sono, se cosi si può dire, ancora tradizionali.
Ma proprio perché "antichi" come disegno e pittura con la loro intrinseca peculiarità di continuo scavo e aggiornamento più si prestano ad una visione critica del messaggio in relazione al tema affrontato. Questa caratteristica di pittura vissuta e meditata criticamente è il dato più significativo per la riconoscibilità delI'artista e in questa qualità e per nostra fortuna sempre presente e in "quantità" che ne qualifica l'operare.
Questa qualità e quantità che ne fanno un artista che si pone a ponte fra l'interpretazione e la concettualizzazione delle immagini e delle emozioni storicamente inserito sempre più nel viaggio pittorico contemporaneo fatto di impegno continuo ed incessante scavo del proprio io.
Milano, 2003

Riccardo Marchelli


C’è un filo sottile che lega la Sicilia a Milano, da ché questa città ha costituito in irresistibile richiamo
per artisti e letterati, luogo dove poter trovare impulsi e fortune, ma in cui - da esule - ci si ritrova a praticare con struggente bisogno l’esercizio della memoria.
Meta (ma non ultima di un artista che non vive ‘in un luogo’ ma abita lo stesso suo mondo di segni, immagini, sogni, quella città ospita e genera insieme le opere di Tano Santoro. Opere in cui il tratto e colore riescono a riflettere una inquieta e sconvolgente realtà, lacerata ma ricomponibile, non tanto relativa ad un mondo fisico quanto all’animo di chi sente la limitatezza umana e ne ricerca di continuo
il superamento. Chi conosce l’artista sa della sua voglia di parlare, della sua disperata ansia di esprimere; la sua pittura rappresenta allora il suo grido nella solitudine della grande città e della folla incomunicante, o l’eco di questo suo mondo comunicativo che trova assonanza nei ritmi e nei sentimenti ritrovati nella terra d’origine.
La circostanza mi fa tornare alla mente un incontro con Santoro, il momento in cui mi è parso di riconoscere l’aedo di una cultura che non muore soffocata dai milioni di vuoti messaggi ma esiste e vive di vita autonoma perchè solitamente ancorata alle proprie radici, autenticamente confrontata con la realtà di oggi, protesa verso sperimentazioni ed esiti ancora da venire. Si era nella metropoli milanese in una occasione in cui il mondo si riunisce per una grande kermesse ed esibizione di sé; la visita al suo atelier di via Bertini, come incontro tra amici, fu un tuffo nella trincea del vivere autentico, che é lotta per la vita di tutti i giorni e involo continuo alla ricerca della bellezza e di quei contenuti che sono le forti motivazioni dell’esistenza.Circostanza, è stata quella, dove è maturata forse l’idea che oggi trova concretizzazione nella Mostra Antologica promossa a fianco della IV biennale d’Arte contemporanea Città di S. Agata Militello, quale omaggio ad un artista che fa illustre la Sicilianità. Nella suggestiva cornice del castello Gallego, luogo di forte memoria per la nostra cittadina, trovano posto dipinti, acqueforti, matite, acquetinte, ceramiche, opere di tecnica mista che datano dal 1975 al 1995. Ancora un’occasione per credere che nell’Arte e nella Cultura è la via da percorrere verso traguardi di civiltà.
Tano Santoro a S. Agata di Militello

Nuccio Lo Castro


 

 

 

 

 

 

Uno scrittore romantico, pittore a ore perse, credette di affermare il proprio realismo proclamando: "Per me, il mondo esterno esiste". L'incisore è più risoluto: per lui, la materia esiste. Ed esiste immediatamente, sotto la mano operante. Essa è pietra, ardesia, legno, rame, zinco... La carta stessa, con la sua grana, la sua fibra, provoca la mano sognante ad affrontare la rivalità della delicatezza. La materia è dunque il primo avversario dell'artista-poeta. Essa possiede tutte le molteplicità del mondo ostile, del mondo da dominare. Il vero incisore comincia la sua opera in una fantasia della volontà e l'esito estetico non nasconde mai la storia delle lotte ingaggiate con la materia. Storia di quei momenti eroici dell'incisore fatti di supremazia e maledizione. Nelle opere di Tano Santoro ritroviamo proprio questo "diritto di sognare" di bachelardiana memoria. Un corpo a corpo che, nella severità e nel rigore con se stessi ed il proprio lavoro di pittore e di incisore, ritroviamo nelle belle parole di uno dei suoi maestri, Tono Zancanaro: "... puntare sulla pittura tutte le proprie energie e la sua stessa vita".
Energia e vitalità scaturiscono appunto da una ricerca che nella forza del disegno, nella sua efficacia e nella sua ossimorica razionale istintualità trova il proprio sostegno e la propria autogiustificazione. Emerge dalle sue opere la necessità di un bisogno "assoluto", nel senso etimologico del termine, di liberarsi da ogni vincolo, absolto da ogni orpello che potrebbe riportarci ad una sorta di deriva decorativista. Questa sua originale ricerca di Sintesi la ritroviamo, come una stella polare, sia nelle opere pittoriche sia nelle opere incisorie. Ricerca che individua la sua ignizione nello sfasamento decostruttivo dell'immagine naturalistica. Nei suoi lavori corpi, oggetti, paesaggi e volti vengono connessi da una fitta trama metamorfica come a sottolineare quella sottile "linea rossa" che sottende l'ordine naturale. Ma su questa trama incombe un "atto di elezione" dell'artista e cioè quello di astrarre dall'ordine e dalla natura il Tutto,superando quella convenzionale visione retinica e approdare ad una visione sinestetica ricca di reminiscenze personali, sovraccaricata da accostamenti enigmatici e sapientemente sonora!
Possiamo certamente parlare di una struttura formale, di un "linguaggio" nell'opera di Santoro, a patto che la si intenda non come una "architettura" stabile, immutabile; ma al contrario come un qualche cosa in perenne tensione poietica tra rigore e liricità. E se volessimo "volare" con la tradizione greco-classica, tra Logos e Mithos.
Insomma la Dynamis di Santoro è quella di teletrasportarci in una dimensione che si astrae da un banale formalismo naturalistico ma che istantaneamente ci immerge in una dimensione intimistica, in una "visione del mondo" intesa come Non-logo. Non-luoghi.., Utopie..! Filosofie? II filosofo francese Gaston Bachelard ci ricorda che lo "scultore della pagina bianca", ovvero l'incisore, si rivela sotto molti aspetti come l'antitesi del filosofo. Il mondo del filosofo, il mondo pensato è sistematicamente piatto, spesso orgoglioso della sua piattezza. Singolare dominazione metafisica del mondo che prende coscienza di sè se non quando il mondo è ormai lontano, impoverito, pallido, negato, perduto!
Perciò appare vigorosa e sana, a un filosofo, la sollecitazione concreta, semplice e immediata che gli viene dall'incisione. Infatti l'incisore ci consente di recuperare i "valori di forza" al modo in cui il pittore ci insegna i valori della luce. Ma c'è di più. Accanto ai suddetti "valori di forma" Santoro testimonia attraverso una sua "etica del fare" una rigorosa onestà nel mantenere, con la passione dei veri maestri, una disciplina quasi ossessiva in una sorta di metaforica "fortezza della solitudine". Che non è il rifugio di un uomo con superpoteri, ma un luogo mentale dove tutto quello fin qui detto è possibile e dove attraverso la sua fatica di esistere tenta, con il suo esempio, di offrire a noi tutti una nuova possibilità di libertà. O per dirla con le sue parole: ... "Un ultimo posto fra i primi"!
Milano 2005

Ivan Croce


Recupera l'immagine dal buio della notte. Rivendica il diritto di sapere dove porta il miracolo del segno, sulla pagina bianca, sulla tela, dove la fantasia ricalca l'ombra del destino vissuto: e si dipana la fertile memoria in acqueforti impresse a custodire la vita che non va dimenticata, anche quella sognata. Il grottesco è nell'aria, ma il segno, proprio il segno lo redime. Guardando le acqueforti di Tano Santoro si resta solo, e profondamente, ammirati.
Roma, 2008

Melo Freni

 


Da le bon dieu dan le détail
La decisione di affidarsi ai "morsi" di un acido o al graffio deciso di una puntasecca che si accanisce sul metallo, scopre l'abito enciclopedico di un artista. Enuclea il rapporto caldo-freddo che si stabilisce tra l'artista e il supporto, tra l'idea e il mezzo per realizzarla attraverso quel mondo nient'affatto grigio e monocorde che è l'incisione nel cui alveo si agitano da secoli le più disparate tecniche.
Un equilibrio tutto interiore tra neri profondi e bianchi da vertigine che l'alchimia del segno riesce a calibrare nell'opera grafica di Santoro appalesando una determinata scrittura del mondo. Un mondo dell'essenziale, quello di Santoro. Un essenziale paradossalmente monumentale in cui prevale ciò che De Grada ha definito uno "sconvolgimento morfologico" in un contesto "monumentale arcaico". Santoro effettua nell'incisione un'operazione uguale e contraria a quella che fa in pittura: in entrambi i casi, la figura con la sua corporeità è negata - negata, non ignorata - ma mentre sulla tela un affastellamento di segni cela la corporeità per meglio mostrarne l'essenza, nelle incisioni è il segno sottile delle puntasecca a dire tutto, quasi in un sussurro.
Niente deve intromettersi tra il segno e il suo significato, neanche i titoli delle opere, che non sono previsti: il segno è, senza mediazioni. È la malinconia diffusa. È l'attesa della donna senza volto la cui personalità è segnata dal graffio della puntasecca. Alle morbidezze dei corpi, nelle sue opere, corrisponde la negazione dello sguardo e, in generale del viso. E laddove un viso viene "lavorato" allora sarà il corpo ad essere appena accennato quasi che la dissoluzione delle membra gli consenta di acquisire fisionomia, Così dal viso di una giovane donna non ci è dato rintracciare riconoscibilità ma tutt'al più familiarità. Alla fisicità negata all'uomo, si contrappone la potente vitalità animale di un cavallo pronto a balzare fuori dal foglio per consentirsi (e consentirci) la fuga.
Milano, 2009

Angela Manganaro


 

(...) Il continuo sperimentare, infatti, il ricercare nuovi esiti a soluzioni espressive già collaudate, l'impegno ad invenzioni originali e nello stesso tempo fortemente caratteristiche, l'elaborata raffinatezza del segno, mai compiaciuto, mai eccessivo, mai ridondante: tutto questo fa di ogni tua opera un insieme di straordinario impatto visivo ed emozionale.
Roma, 2009

Giuseppe Sicari



Foto di Helen Gritsch

Oltre la figura... la faccia nascosta della luna.
Meditazioni sul segno di Tano Santoro

La figura sembra voglia uscire dal quadro e si divincola per non accettare il suo destino di fissità. Il segno rivela e contiene l'immagine, ma per pudore non la vorrebbe mostrare. E quel taglio preciso e penetrante sembra inferto dal bisturi del chirurgo o dal laser dell'intagliatore di diamanti: carne molle o pietra dura, la materia cede e rivela altri anfratti, altre sfaccettature... E la materia è la tela, la lastra, lo strato di colore, la figura che si agita sullo sfondo, lo sfondo che vorrebbe distruggere la figura: come se nessuno degli attori di questo dramma volesse accettare la parte assegnatagli. Ma è la mano che decide, come un demiurgo che volesse scoprire affannosamente che diavolo di creatura ha creato.
Santoro sceglie la figura, perché sa che non può lottare con i mulini a vento dell'astratto, dell'infòrme, del non ancora nato e vissuto: ha bisogno di lottare con le immagini che ha incontrato nella sua esperienza vitale.
Forse l'artista compie così un rito terapeutico, per trovare una serenità impossibile. Se Innocenzo X di Velasquez diventa con Bacon macellaio e carne da macello, per Santoro la figura della madre ha un destino più dolce, ma il segno che ferisce e infierisce è il medesimo. E sia pennello e bulino non c'è differenza, perché è l'intenzione che fa il segno. Quando il quadro sembra finito, e ogni pittore lo lascerebbe al suo destino, per Santoro, invece, è solo l'inizio, e comincia il tormentoso scavo per cercare una sinopia che si nasconde, che è all'origine, ma che non si rivela. Il lavoro è travagliato e lungo, e l'opera è compiuta solo quando l'artista ha trovato ciò che cercava. Ma a noi piace pensare che sia l'energia a scemare, il polso a stancarsi e l'anima, ritrovata un po' di pace, a mettere la parola FINE.

Francesco Leprino