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Da "Il mondo poetico di Giuseppe Vanadia"
di Virginia Buda


[...] Il graduale percorso di Vanadia verso la riduzione sempre più accentuata degli elementi descrittivi e cromatici, ricorda le fasi iniziali dell’evoluzione di Piet Mondrian verso l’astrattismo. Se osserviamo l’Albero presentato a Venezia nel 1956 che, reso esclusivamente con pochi e spigolosi tratti di nero sul fondo chiaro, comunica tutta la malinconia dell’autunno, cogliamo la stessa riduzione degli elementi naturalistici attuata dall’artista olandese verso la combinazione bidimensionale di linee e un’analoga tendenza al monocromo con un netto prevalere dei beige e bruni.
I paesaggi di Giuseppe Vanadia continuano a suscitare numerosi apprezzamenti critici comunicando un senso di forte drammaticità. Nel gennaio del 1957, in occasione della mostra collettiva di Napoli, Salvatore Pugliatti scriveva: «Giuseppe Vanadia semplifica le forme e riduce i colori, alla ricerca di una espressione intensa e di una vibrazione silenziosa. Gli spazi si aprono, le forme si concentrano, il colore si polarizza verso gli estremi del chiaro e dello scuro (quasi bianco e nero), appena avvivato da venature di sottofondo e dal grumo che lo ispessisce. pare che la composizione voglia avviarsi verso l’astratto, ma essa si ferma sulla soglia, realizzando una incantata emozione lirica».
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Quei «pochi colori, sottilmente graduati, suscitano molteplici armonie» in dipinti come il Paesaggio N. 3, presente al premio Villa San Giovanni di quell’anno, o con la loro intensità si proiettano verso l’esterno nei Garofani, forse eseguiti nello stesso periodo per lo sfondo analogo a quello dei paesaggi e per la netta definizione dei contorni raggiunta, in questo caso,senza il ricorso a linee scure: gli steli verdi, con il loro andamento nervoso e spezzato, rimandano ai marcati profili tipici della sua produzione pittorica coeva. Colori tenui, con sfumature di bianco che diventa quasi argenteo, appaiono in una veduta a lui molto familiare, che riprenderà spesso in seguito.

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Ritroviamo lo stesso tenue azzurro-argenteo sullo sfondo degli stilizzati Tulipani in cui si ripresenta anche quella materia pittorica che sembra avere la consistenza della creta, con pennellate brevi che si susseguono con andamento verticale e in parte si sovrappongono creando spessori e riverberi.
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Vanadia vinse la medaglia d’argento al I premio Nazionale di pittura “Città di Naso”. Tra i titoli dei dipinti esposti troviamo Cipresso, un soggetto che diventerà una presenza pressoché costante nella sua produzione tra il 1957 e il 1958. Impenetrabili muraglie e scalinate sono delimitate da grosse linee nere, così come neri sono i radi cipressi che le affiancano creando un forte contrasto con i toni chiari dei muri. Sono dipinti interamente giocati su questa bicromia solo a tratti interrotta dall’azzurro del cielo velato di bianco. Alla rarefazione cromatica si accompagna il risalto dato alla consistenza materica, la pittura è densa e viene appena modellata dal pennello lasciando solchi sulla superficie, ma Vanadia in questa serie utilizza un legante che, non amalgamandosi con la preparazione di base, causa purtroppo parecchie cadute di colore.
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Vanadia si concentra su determinati temi e colori, ripetuti con variazioni minime in un breve arco di tempo, seguendo un percorso mentale che lo conduce alla rarefazione dei mezzi espressivi e ad un linguaggio che, senza perdere mai del tutto il legame con lo spunto oggettivo, si fa via via più astratto tendendo ad evocativi accostamenti tonali e materici.
Nel 1958, dalla ricerca incentrata sui muri si avvia verso le rappresentazioni di edifici, alcuni ben riconoscibili come il Monte di pietà di Messina, realizzati ancora con un uso molto parco del colore, mantenendo le grosse linee nere di contorno ma sostituendo l’arancione al blu. È una delle più interessanti fasi della produzione di Vanadia, in cui si mantiene inalterata la particolare tecnica esecutiva che dà alle superfici la consistenza della creta avvicinandosi, in alcuni dettagli di decorazioni architettoniche, alla concretezza tattile dei muri.
Rispetto alla serie dei cipressi non varia la corposità e l’andamento verticale delle pennellate, così come i rapidi e sfumati accenni di colore che animano le superfici chiare. Anche in questa fase assistiamo allo svolgimento dai dipinti attenti alla resa verosimile delle architetture, alcune realmente esistenti altre rielaborate fantasiosamente, a quelli ridotti a pure linee che si avvicendano e si intersecano rievocando solo idealmente le case, dai tetti arancioni, accostate fittamente l’una all’altra o appena distanziate da viottoli e tornanti. Nell’olio oggi appartenente all’Istituto “A. M. Jaci” le linee nere costituiscono un fitto reticolo che copre interamente la superficie, mentre nella raffinata semplificazione di Muri ritorna alle modalità della serie dei muri e cipressi, con la scala che si intravede a tratti tra le pareti chiare e impenetrabili alternate a zone di arancione contornato di nero. Sempre nel 1959 raggiunge il culmine della rarefazione figurativa, ottenendo al tempo stesso il massimo potere rievocativo, nel bel dipinto Pantalica: sullo sfondo, che reca le consuete sfumature ocra che si mescolano ai toni chiari, sono sparsi quadrati neri di dimensioni varie che richiamano con efficacia l’affascinante e singolare visione della necropoli nella provincia siracusana.
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Silvestro Prestifilippo, per il quale Vanadia illustrerà vari testi, oltre ad apprezzarlo sinceramente dimostra una chiara visione della fase di ricerca artistica attraversata dal pittore, tramite variazioni a prima vista impercettibili si stava verificando un considerevole cambiamento nella sua arte con opere che, pur presentando poche novità dalpunto di vista tecnico o tematico, preparano chiaramenteil terreno al marcato rinnovamento della produzione successiva. Sono dipinti che rivelano l’acquisizione di unatecnica più esperta, attenta ad ottenere effetti di ricercatezza cromatica senza perdere quell’intensità espressivaed evocativa che gli viene «da quel suo mondo così den-so di intime esigenze formali perché remoto di civiltà emoderno di spasimi e di interrogativi».

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Intorno al 1960 prende avvio la sperimentazioneche caratterizzerà l’ultima fase della sua produzione pittorica. Navigazione è un quadro esemplificativo di questa evoluzione: in luogo degli edifici o degli elementi naturalistici stilizzati, ma con una fisionomia ben individuabile, adesso ci sono solo sagome dai colori forti e contrastanti che suggeriscono l’idea delle vele, delle prue o delle ancore sul blu intenso del mare. La stesura segue ancora un andamento verticalee parallelo, ma la materia pittorica si è fatta più ricca e non è più regolata dal pennello ma da una spatola larga.
Da questo momento Vanadia intraprende una strada dalla quale non tornerà più indietro, indipendentemente dalla scelta dell’astrattismo o del figurativo, non rinuncerà più a questa pittura densa, gonfia di spessori e rilievi, che sembra invitare ad un esperienza tattile oltre che visiva e abolisce i toni cupi per approdare ad una tavolozza varia, brillante e vivace. Nelle opere del 1960, anche nei casi meno riusciti in cui accosta forme dai contorni irregolari e incerti, non cede mai pienamente al concretismo. Il dato naturale, un paesaggio o il ricordo di un luogo, è all’origine delle creazioni di Vanadia, che sono astrazioni da un elemento oggettivo e raramente frutto della concretizzazione visiva della pura idea.
Tornano con insistenza le vallate di Tortorici, a volte predomina un naturalistico verde sul quale sono disseminati disordinatamente il bianco e il rosso delle casette; in altri casi le scelte cromatiche sembrano suggerire una libera trasfigurazione del paesaggio conosciuto e, enfatizzando il potere evocativo del colore, Vanadia giunge a smaterializzare il mondo oggettivo, liberando l’opera della propria funzione descrittiva e scegliendo un “innaturale” colore arancione per alludere al panorama siciliano.
Le sue opere diventano lirica rievocazione di atmosfere più che di paesaggi; alcune, per le felici scelte compositive e per il riuscito accostamento di colori che si accompagna al raggiunto equilibrio formale, riescono veramente a comunicare l’emozione provata dall’autore nel ricordo di un luogo caro, di un momento e di una luce vissuti intensamente. Esemplificativa una tela, forse legata alle vacanze in puglia (I, 239), in cui le fasce di diverse larghezze, di colore giallo, rosso, arancione, azzurro e verde, si sovrappongono quasi annullando nella propria vastità la piccola macchia bianca di lontane case assolate, e veramente il colore diventa sogno, desiderio, riuscendo a reinventare il mondo, così come scriveva l’amato Kandinskij.
Cromie nuove, vivacità inusuali animano i dipinti di questa nuova fase che sembra, a volte, tendere ad una solidificazione in forme più definite, che diventano compatte e chiuse, mentre la superficie, abbandonate le trasparenze e la resa atmosferica, si fa smaltata per la stesura piatta dei colori puri. Affascinante una delle rare visioni cittadine, datata 1960, che, a prima vista, sembra raffigurare, come in divenire, lo scontro del cielo di intenso turchese, del verde del prato e del rosso deciso contro il grigio di grattacieli o ciminiere. Questi si innalzano minacciosi senza riuscire, però, ad avere il sopravvento: il loro grigio, infatti, trascolora quasi sopraffatto dal vivido bianco che sale. Invece l’effettivo soggetto del quadro è una veduta di San Gimignano e ciò fa rilevare quanto Vanadia, ancora una volta, sia riuscito a ricreare fantasiosamente il paesaggio reale, restituendo una versione tanto personale e lontana dall’immagine canonica che tutti abbiamo del bel paese toscano, da cartolina turistica, da renderlo irriconoscibile. potere della capacità immaginativa di un artista e della libertà evocativa ed interpretativa dell’osservatore.
In questa serie di paesaggi, compresi nel breve arco di un biennio, si legge l’affinità con la pittura del russo naturalizzato francese Nicolas De Staël, affascinante e tormentato esponente, nel secondo dopoguerra, dell’esistenzialismo e della reazione, da parte di un gruppo di astrattisti, tanto all’arte informale e gestuale quanto al formalismo geometrico. Sembra che si verifichi una comunanza ideale, un modo analogo di intendere la pittura e in particolare quella di paesaggio; in dipinti come Giorno scuro e il Paesaggiodatato 18 settembre 1961 il pittore messinese si avvicina notevolmente ai paesaggi agrigentini realizzati nel 1953 dal francese che, con spessi strati di colore applicati ripetutamente con la spatola, creava superfici quasi a rilievo.
L’evoluzione della pittura di Vanadia viene immediatamente ed entusiasticamente annotata dai critici e dagli amici, questa nuova vitalità cromatica unita alla maggiore sintesi formale porta Salvatore Di Giacomo a vedervi una nuova gioiosa esplosione di vita accompagnata da acquisita sicurezza e maturità tecnica.
Gli studi di quel biennio, prevalentemente incentrati sugli effetti materici, denotano una maggiore attenzione nei confronti di artisti come Dino Caruso, protagonista del MAC siciliano, che contemporaneamente realizzava analoghe composizioni geometriche giocando sull’uso della spatola e creando superfici irregolari percorse da grumi e rilievi materici; la Composizione, giocata su bianco e rosso, mostra un’evidente vicinanza con il dipinto Augusta 1962,con cui l’artista catanese partecipò al premio “tavolozza d’oro” del 1965.
Non è un caso, dunque, se Vanadia viene invitato a partecipare nel maggio del ’61 alla mostra “Sei astrattisti siciliani” organizzata a Messina e voluta dalla “Silmarc Marmi”103, un’industria che con spirito moderno, tipico di quel decennio, dimostra l’interesse verso la promozione artistica da parte di enti dediti ad attività economiche molto lontane dall’arte. La scelta di accostare Vanadia e Castagna ad artisti di formazione ed esperienze artistiche diverse come i protagonisti del MAC siciliano, Dino Caruso e Aldo Indelicato, dimostra la volontà di concentrare l’attenzione sulla loro comunanza di linguaggio in quegli anni e sulle analoghe ricerche formali caratterizzate dall’assenza del figurativo.
L’interesse di Vanadia verso l’arte concreta, che nei primi anni Sessanta diventa prevalente, gli consentirà un rinnovato contatto con il più vasto panorama pittorico nazionale oltre ad una partecipazione attiva alle correnti contemporanee, in particolare al costruttivismo verso cui in quegli anni si era di nuovo concentrata l’attenzione. Era ancora un momento in cui la pratica pittorica tradizionale continuava ad essere una valida strada percorribile anche se non più l’unica; con il trascorrere del decennio verrà gradualmente esautorata dalle nuove tendenze, dal New Dada alla pop Art, dall’arte cinetica agli happenings, dagli assemblaggi alla Land Art fino alla diffusa attenzione per l’uso di nuove tecnologie. [...]


 

Lo zio matematico
di Teresa Pugliatti

Probabilmente da me ci si aspetta che parli della pittura di Giuseppe Vanadia. Della sua pittura ho scritto altre volte, e poi, qui ne scrive molto bene Virginia Buda, e non mi sentirei di aggiungere se non, come farò, alcune riflessioni particolari legate al mio rapporto familiare e affettivo con lo zio.
Voglio dunque parlare dello zio Peppino e dire come riuscì ad aprirmi una incredibile luce su certe asperità veramente drammatiche che accompagnarono la mia vita di giovane scolara.
Ogni anno, anzi, ad ogni scrutinio scolastico, come aveva modo di appurare ufficiosamente mia nonna Teresa, attraverso la segretaria della mia scuola, sua intima amica, i miei insegnanti di matematica dell’anno in corso proponevano di bocciarmi, con la motivazione che “la Pugliatti non capisce assolutamente niente”. Ed era vero. Non capivo assolutamente niente. Vedevo numeri, sentivo formule fredde e astratte da imparare a memoria, e ciò peraltro mi procurava un rifiuto proprio drammatico nei confronti della materia. Venivo però sempre fortunosamente salvata dai professori di Lettere che avevano di me una diversa opinione.
Però, il pericolo di questa bocciatura era sempre alle porte.
Allora, mi recai dallo zio Peppino. Il quale, cominciò secondo il suo consueto modo di fare, a raccontarmi dei fatti, allegramente; poi, quasi senza che io me ne accorgessi, gradualmente, mi spiegò cosa fossero quei numeri e quelle formule delle quali avevo paura. Le sue parole trasformarono numeri e formule in concetti concreti. E quelle operazioni che mi sembravano così complicate mi apparvero addirittura appassionanti. Tornai da lui altre volte e quando andavo via, mi diceva: «Sei un cannone». Io ridevo e gli rispondevo: «Sei tu un cannone!».
Purtroppo, però, l’effetto di queste lezioni, che meglio chiamerei “conversazioni”, veniva puntualmente annullato poi a scuola, dove, soprattutto negli ultimi anni del liceo, un certo professore ci impose di imparare tutto a memoria. E per imparare tutto a memoria, io stessa dovetti costringermi a non ragionare più su quelle formule, e a rimuovere il loro significato. E la matematica ridivenne per me quel mostro che mi aveva fatto paura. Così mi iscrissi alla Facoltà di Lettere. Ma non ho dimenticato quanto la matematica può essere interessante se studiata, o meglio interpretata, nel modo giusto. E spesso, ora che nella maturità avrei potuto dedicarmi ad altri interessi, rimpiango di non avere più quell’eccezionale, dolcissimo, umano e concreto Maestro, con il quale avrei potuto ripetere e approfondire quella appassionante esperienza.
Umano e concreto, ho detto. Nel suo insegnamento come nella sua pittura e nei rapporti affettivi con i familiari e con gli amici. La sua sensibilità si esprimeva in maniera coerente in tutti gli aspetti della sua esistenza. Ma voglio ancora ricordare il suo entusiasmo genuino e direi in certo senso fanciullesco, quando ci mostrava i suoi quadri. Canticchiando, con la sigaretta ferma nell’angolo della bocca, faceva passare sotto i nostri occhi le sue ultime opere. La sua pittura, che, come scrive qui Virginia Buda, «ha assorbito tutti i modelli facendoli… profondamente propri», finisce così per conservare «una totale autonomia di visione»; le sue immagini, nate sempre dall’animo, sia nelle espressioni più figurative sia nelle loro traduzioni astratte, ci dicono infatti della sua costante autenticità, e anche del suo amore per le piccole cose come per le persone.
Un amore che tutti gli abbiamo ricambiato

Le api e le stelle
di Isolina Vanadia

Sono stata testimone del percorso artistico di mio padre fin dalle sue prime prove, i piccoli quadri dipinti insieme a me bambina. Poi il nostro gioco si è trasformato per lui in ricerca pittorica e da quel momento i miei occhi hanno iniziato a seguirlo da lontano ma, secondo un tacito accordo, i suoi quadri mi appartenevano tutti e se qualcuno mi piaceva particolarmente, chiedevo di poterlo appendere in camera mia. Questi quadri mi hanno poi seguito nella mia casa e ad essi nel tempo se ne sono aggiunti molti altri. A loro volta le mie figlie hanno compiuto un’operazione simile: hanno scelto in casa mia ed in quella dei nonni le opere che volevano portare con sé nelle rispettive case.
Negli anni successivi alla sua morte, con l’aiuto di mia madre e poi da sola, mi sono dedicata alla sistemazione dello studio di mio padre; ho archiviato la documentazione riferita alle mostre personali e collettive e agli interventi, i più diversi, realizzati dagli inizi degli anni Cinquanta fino al ’74; ho collaborato con gli esperti in occasione di alcune mostre collettive e della personale organizzata a Tortorici nel 2007 da Calogero Randazzo del Centro di Storia Patria. In tutte queste attività sono stata sempre sostenuta dalla autorevole e affettuosa presenza di Teresa Pugliatti.
Per molto tempo mi sono chiesta guardando le opere di mio padre: «Le vedo davvero?». E più sentivo l’urgenza di formulare giudizi critici più le opere si sottraevano al mio sguardo indagatore fino a quando mi sono convinta che l’amore ci concede la libertà di non dover giudicare anche se prima o poi, quando meno ce l’aspettiamo, ci svela l’unicità dell’oggetto amato. Così almeno è capitato a me.
Fra tante carte, fotografie, lettere, disegni un giorno ho ritrovato il libro arancione, il libro segreto, disegnato e scritto nelle ore notturne, lasciato e ripreso più volte, interrotto dalla malattia e dalla morte, un po’ diario e un po’ zibaldone. Sfogliarlo mi ha aiutata ad entrare con occhi nuovi nel mondo poetico di mio padre.
I disegni ispirati alle parole o alle immagini degli amici della libreria dell’O.S.P.E. – Vann’Antò, Quasimodo, Saitta, Calabrò, Pignato, Pugliatti, Prestifilippo, Palumbo, Provenzale, Salleo, Fazio, Schmiedt, Pino, Amadori – mi sono subito apparsi come il tentativo, fatto quasi per gioco e in maniera estemporanea, di rappresentare graficamente l’incontro tra voci e sguardi diversi. La testimonianza di un osservatore, di un occhio attento e affettuosamente ironico che da una posizione di solitaria partecipazione offre agli amici i suoi disegni. Oggetti simbolo tracciati con tre colori – il nero, il rosso e raramente il viola – linee, punti, forme essenziali, metafore dell’indicibile commentano versi, frasi, indovinelli. Un dialogo che neppure la morte può interrompere.
È stato proprio attraverso i disegni del libro arancione, guardati e riguardati, alcuni scelti per illustrare Poesia al Fondaco di Sergio Palumbo, il numero 10-11, 1984 della rivista “Cooperazione educativa” dedicato al Sud e tante iniziative dell’associazione La ragnatela, che sono tornata a dialogare con l’opera di mio padre. E di ciò ringrazio tutte le persone con le quali ho condiviso negli anni questa esperienza.
Durante il lungo e accurato lavoro di ricostruzione storica e di analisi critica dell’opera di mio padre svolto da Virginia Buda, ho cercato di rendermi utile mettendo a disposizione tutti i materiali in mio possesso e, non senza qualche confusione, anche i miei ricordi. Ne è nata un’amicizia discreta, fatta di osservazioni profonde, di silenzi, di risate, di autoironia. Un’amicizia che sarebbe piaciuta molto a mio padre.
Io oggi lavoro insieme ad altre socie de La ragnatela nel laboratorio DArt. Per noi la creatività non è facile da sostenere né da accogliere perché è spesso scandalosa, disarticolata, incoerente. La sua forza irregolare si svela ogni giorno nella nostra relazione con la disabilità liberandoci dal vincolo della convenzione. Non avrei mai potuto appartenere a questo gruppo se mio padre non avesse giocato con me, se non fossi andata con lui a Venezia e non avessi scoperto ad otto anni, alla Biennale, la pittura di Emilio Vedova, se non fossi tornata tante e tante volte nelle sale del municipio di Messina per perdermi nello sguardo dell’Annunciata di Antonello, se insomma non avessi fatto esperienza dell’arte, se non avessi imparato che l’arte non é qualcosa di intellettuale ma é totalmente connaturata con la vita, con l’esperienza di tutti i giorni, con quel continuo processo di trasformazione delle cose che operiamo più o meno consapevolmente stando al mondo.
C’è un quadro al laboratorio che sembra osservarmi mentre lavoro con il mio amato gruppo. Silenzioso mi indica lo scarto esistente tra realtà e rappresentazione: su uno sfondo di bianca materia punteggiato di api/stelle sta sorgendo/tramontando una culla/luna, linee curve segnano il confine tra cielo e terra. Per un attimo entro in questo mondo a due dimensioni, essenziale nella sua lirica geometria. Ritorno al mio lavoro. La presenza del quadro mi ricorda che per esprimersi talvolta è necessario ascoltare il silenzio, restare in attesa. Mi ricorda che il limite salvaguarda dagli eccessi. Che mentre si traccia una mappa non bisogna dimenticare il territorio che l’ha generata. Che il tempo-spazio dell’arte ci permette di esprimerci e quindi di esistere
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