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A questo punto
Quello che succede adesso è appunto quello che sta succedendo e una delle cose che stanno succedendo è questa mostra, questo catalogo, che traccia un itinerario tra le cose che ho fatto.
Quando mi proposero di fare una prima grande mostra antologica, con annesso libro, eravamo nel 1988, o forse alla fine del 1987. Mi si offriva per la prima volta la possibilità di storicizzare la mia attività e, si sa, le storicizzazioni hanno sempre un che di arbitrario oltre che iettatorio. Ne parlai con Cartier-Bresson che commentò, con la solita, laconica pertinenza: «ma non è un po' troppo presto?». La sua domanda mi fece riflettere. Avevo 45 anni, avevo fatto il fotografo in maniera che consideravo inadeguata, e avevo forse qualche rimpianto. I rimpianti sono sempre un po' ridicoli: ognuno fa quello che la vita gli offre; però, certo, a posteriori ti chiedi cosa sarebbe accaduto se le cose fossero andate diversamente, se i contesti fossero stati altri e le risposte personali differenti. Se non avessi fatto le feste, se non fossi andato a Milano, se fossi entrato a Magnum, come altri, a ventitré anni... forse avrei fatto una fotografia diversa, forse sarei diventato un fotografo migliore. Ma sono discorsi oziosi, ognuno fa quello che può e anch'io, dopo quel libro della mia giovinezza, frutto di talento non controllato, ho dovuto passare gli stadi dell'apprendimento, delle rinunce, delle delusioni, delle mediocrità.
Fare quella mostra, quel libro, significava accettare una sfida. Così mi sono messo a cercare le fotografie per questo libro antologico. Quando viaggi nell'archivio, ciò che soprattutto viene fuori è la quantità di foto, le centinaia di migliaia di immagini mediocri. Alla fine ne selezionammo centottanta.
Sicuramente, né due mesi dopo, e ancora meno dieci anni dopo, avrei fatto la stessa scelta. Il titolo, Le forme del caos, nacque dopo lunga diatriba. Sciascia era scettico. Le forme del caos non piaceva proprio a nessuno. Io ero un po' titubante. Ma, non so perché, quel titolo mi sembrava l'unico possibile, quello che meglio corrispondeva, intellettualmente e filosoficamente, alla mia maniera di vedere la vita, che è proprio un viaggio dentro caotiche cose, di cui non capiamo niente e alle quali cerchiamo di dare un senso. Da allora sono passati molti anni. La mostra l'ho presentata altre volte, ci inserivo qualche fotina nuova, e la chiamavo sempre Le forme del caos. Ma questa è una mostra radicalmente diversa, nella quale in un certo senso faccio i conti con quel fare il punto del 1988 e ne faccio un altro. Almeno fino a questo punto. Poi, vedremo.
Vorrei utilizzare come exergue una citazione di un testo di Borges che si chiama Epilogo in cui racconta di un uomo che decide di rappresentare il mondo e disegna fiumi, valli, palazzi, città, uomini, bambini... e alla fine si accorge che tutte le linee che ha tracciato sono il suo autoritratto. Considero di avere avuto molta fortuna, perché il mio autoritratto è risultato anche l'autoritratto di molte persone che, misteriosamente, si sono riconosciute nelle cose che io ho guardato e nel modo in cui le ho viste. Ho l'impressione di avere avuto dalla fotografia più di quanto abbia dato.

Libri
Da sempre, faccio foto perché un giorno finiscano in un libro. Credo faccia parte di una fede culturale che non si rassegna, ma neanche un poco, ad una visione del gesto culturale come gesto totalmente effimero. Amo il libro perché è il luogo in cui racconti che cosa hai fatto, a che punto sei e verifichi con te e con gli altri se il tuo itinerario ha un senso. Sono un appassionato bibliofilo, anche di fotografia e, come dice il mio amico Berengo Gardin, guadagniamo soldi per comprare libri degli altri. In fondo, anche la Bibbia è un libro: tutte le cose importanti del mondo, ma purtroppo anche le ignobili e anche molte stupidaggini, prima o poi finiscono in un libro, diceva Alberto Savinio. Il libro rappresenta lo strumento attraverso il quale mi sembra di parlare davvero con le persone. Si può comunicare anche con una mostra, ma una mostra è anche sempre un po' un rito mondano. Sfogliando un libro, leggendolo, guardandolo, il lettore è solo, in un certo senso ne diventa autore anche lui. Se guardando le fotografie si emoziona, se si indigna, se ne fa sedurre, se capisce e si capisce, veramente puoi toccarlo nelle corde più intime. Chi tocca un libro, tocca un uomo, si dice. È l'unica immagine di futuro che le nostre illusioni sull'essere qualche cosa di più di questa cosa impermanente che è il nostro corpo e la nostra esistenza, può dare. Sono abbastanza laico e abbastanza cinico per dire che non mi interessa la posterità; però, con un libro, fino ai miei nipoti spero di arrivare.
Era inevitabile che prima o poi facessi una mostra e un libro sul fare libri.
La memoria delle cose, la memoria dei fatti, la memoria dei luoghi, la memoria degli uomini.
Una Bibliografia dell'istante

Ferdinando Scianna
Leonardo Sciascia
Feste religiose in Sicilia
Leonardo daVinci, Bari 1965

Ma una festa religiosa - che cosa è una festa religiosa in Sicilia?
Sarebbe facile rispondere che è tutto, tranne che una festa religiosa (ma con una grande eccezione, come vedremo). È, innanzi tutto, una esplosione esistenziale; l'esplosione dell'es. collettivo, in un paese dove la collettività esiste soltanto a livello dell'es.. Poiché è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo, che è poi la condizione del suo vigile e doloroso super-io (stiamo impiegando con approssimazione i termini della psicanalisi), per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe, di una città. In questo senso, oggi havalore di festa il periodo che immediatamente precede la consultazione elettorale, e la giornata elettorale stessa (ma venata di quella malinconia che si insinua nel disfarsi e spegnersi di una festa): che è il momento in cui il partito politico, i partiti politici, la politica insomma, effettualmente esiste; cosí come un tempo, nelle feste patronali o liturgiche, veniva a configurarsi, anche attraverso una eccezionale esplicazione di poteri (la liberazione di condannati, la licenza di potere insultare o colpire persone di più alto ceto), l'esistenza di una corporazione, di un ceto, di una classe. Per cui il voto, spesso, e dai più, viene usato come un tempo il contadino e il pastore di San Fratello, mascherato da «giudeo », usava la disciplina di ferro per colpire i signori; come il popolano di Prizzi, impersonando la morte, faceva il ricco bersaglio delle sue frecce. Con immunità, ma ad ogni buon conto mascherati.

Dal saggio di Leonardo Sciascia

Ferdinando Scianna
Il Glorioso Alberto
Editphoto, Milano 1971.

Gesti e parole eseguiti da maghi che fanno nascere speranze, spesso certezze, nelle persone che, nelle città e nella campagna, si rivolgono a questi ultimi portatori della magia popolare, annidati nei vicoli di Forcella a Napoli, alla Kalsa di Palermo, nelle fasce extraurbane di Roma, Torino, Milano e ovunque dove c'è miseria, dove quindi il bisogno di aiuto e di conforto si articola in maniera ben diversa da quello della borghesia, che cerca aiuti individuali negli studi degli astrologi e dei guaritori alla moda.
Ogni giorno a Serradarce, nel Salernitano, davanti ad alcune centinaia di persone, opera il defunto Alberto, il più grande e famoso guaritore del Mezzogiorno, adorato dalle masse dei miseri e perseguitato dalla chiesa con la qualifica di «strega» e di «fattucchiera»». Gli attributi che lo qualificano sia positivamente sia negativamente-Glorioso, Santo, Beato, strega, fattucchiera, imbroglionasono anche di genere femminile perché Alberto, fisicamente parlando, è una donna, Giuseppina Gonnella, di cinquantasettanni, analfabeta, madre di famiglia, che da quattordici anni è la protagonista del fenomeno Alberto.
Alberto, un ragazzo di 18 anni, morto nel 1956, entra quotidianamente nel corpo della zia Giuseppina per comunicare con la gente.
Alberto Gonnella muore il 26 ottobre 1956 in seguito ad un incidente provocato da uno zio, fratello di Giuseppina, durante la manovra di un camion; la sciagura crea forti tensioni in famiglia, soprattutto tra il padre del ragazzo e l'uccisore. Dopo tre giorni dalla morte di Alberto, mentre la salma si trovava nella camera mortuaria del cimitero in attesa dei nulla osta per la sepoltura, Giuseppina, che era andata in visita di condoglianze dai genitori del defunto, all'ora della morte del nipote, esattamente alle 8,36 fu presa da dolori alle gambe che la paralizzarono. Venne fatta distendere sul letto di Alberto, dove rimase fino all'indomani, quando il padre del defunto espresse il dubbio che essa non stesse male ma fosse posseduta dallo spirito dei figlio. Giuseppina allora incominciò a parlare come se fosse Alberto di cose alle quali solo il giovane aveva assistito; disse che la sua salma non si era decomposta ed espresse il proprio disappunto perché i parenti gli si erano avvicinati tappandosi il naso con il fazzoletto. Dato che il padre mostrava incredulità per tale incarnazione, sebbene fosse stato proprio lui in un primo tempo ad ipotizzarla, Alberto, sempre tramite la zia, parlò di un basco che si doveva trovare sotto il sedile dei camion che lo aveva ucciso, e il basco fu realmente trovato. Questo bastò per convincere tutti che Alberto era entrato nel corpo della zia e da quel giorno la vita di Giuseppina incominciò a svolgersi su due binari: quello della sua normale esistenza e quello magico della incarnazione del nipote. L'evento si diffuse e la gente incominciò a recarsi da Giuseppina per chiedere consigli, per risolvere malattie diverse, per farsi togliere malocchi e fatture.

Dalla prefazione di Annabella Rossi

Ferdinando Scianna
Les Siciliens
Denoél, Paris1977

La fotografia, una fotografia, sembra racconti immediatamente un luogo, una persona, un fatto colti in un momento fortuito, imprevedibile, irripetibile e fortuitamente, imprevedibilmente, irripetibilmente carichi di significati al punto da esserne sintesi e (rovesciamento-per saturazione-dell'oggettività, del realismo) simbolo. Invece, anche se fulmineamente disvelata, l'immagine fotografica è il risultato di un lungo e lento, anche se inavvertito, apprendimento; di un qualcosa di simile al processo di cristallizzazione di cui parla Stendhal: e ci aiuta a stabilire l'analogia la suggestione di quella che una volta si diceva «camera oscura», oscura quanto «les profondeurs abandonées de la mine de sei de Salzbourg» dove, se si lascia «un rameau d'arbre effeuillé par l'hiver, deux ou trois mois après on lo ritire couvert de cristallisations brillantes». Nella fotografia, cioè nel fotografo, accade qualcosa di simile: s'imbeve di una realtà, di un'atmosfera, di un avvenimento finché, con un piccolo scatto meccanico, ne consegna alla « camera oscura» la sintesi, la cristallizzazione.
Queste fotografie di Scianna che raccontano la Sicilia (la Sicilia com'è per i siciliani, com'è nei siciliani) sono appunto le cristallizzazioni di un lungo processo di conoscenza; e di amore anche, e di odio: perché la Sicilia è sempre, per un siciliano, anche se a diversi livelli di consapevolezza e di equilibrio, come la donna dell'antico poeta: «nec sine te, nec tecum vivere possum ». E ad accompagnarle, a scrivere un testo che le accompagnasse (non che le spiegasse, poiché ovviamente non hanno bisogno di essere spiegate), mi è parso di non poter fare nulla di meglio che aggiungere altre cristallizzazioni: cristallizzazioni linguistiche, di un lessico particolarissimo, di una particolarissima paremiografia, cosí come le ritrovo nella memoria, nella «camera oscura» della memoria, e che sono effettualmente gli elementi su cui si fonda una vera conoscenza - e in questo caso la mia conoscenza del paese in cui sono nato, in cui ho passato l'infanzia e la giovinezza. Un paese siciliano, Racalmuto in provincia di Agrigento: ne ho rappresentato la vita, vent'anni fa, in un libro; una vita che somigliava a quella di altri paesi siciliani dell'interno, che ne era la sintesi. Ora, con questa specie di piccolo dizionario, faccio un'operazione inversa: di sciogliere la sintesi nell'analisi, la generalità nella particolarità, la somiglianza nella dissomiglianza. Ed è un'operazione, questa di localizzare e di individualizzare al massimo, molto simile a quella dei fotografo.

Dalla postfazione di Leonardo Sciascia

Ferdinando Scianna
I Siciliani
Einaudi, Torino 1977

Un altro mito di un'estrema semplicità e nello stesso tempo suscettibile di molteplici interpretazioni: il grembiule della donna di Pietraperzia. Lo trascrivo nella versione che ne ha dato Francesco Lanza, uno scrittore siciliano degli Anni Venti, uno di quegli scrittori che si sono dedicati a raccogliere e ricreare le tradizioni orali che pullulano in questa terra.
« La pierzese aveva addosso un grembiule che toppe ce n'erano una sull'altra da non contarsi piú, e a cento colori; sicché divenuto spesso del doppio pareva invece la pannicciata dell'asino.
Il marito, che glielo sapeva dal dì delle nozze, non poteva vederglielo piú in mano per rattopparselo, che non le bastavano mai pezze e le si sfaldava da ogni parte; e come venne la fiera gliene comprò uno nuovo. Quella a vederlo non sapeva quanto lodarlo, ch'era a fiorami; e intanto faceva: - Che belle toppe si possono tagliare di qua per il mio grembiule sciupato, e cosí posso mettermelo anche per la festa. E dato di mano alle forbici si mise a tagliare di là le toppe per quello vecchio; e a lavoro finito, lo mostrava tutta contenta al marito: - Guardate, marito mio, com'è ora rappezzato il mio grembiule, che pare nuovo nuovo ». L'essere abituati alla miseria, ai cenci, non basta e spiegare il gesto della donna di Pietraperzia; e chi vedesse in questo aneddoto solo un'allusione alla miseria secolare, alla povertà esistenziale del popolo siciliano perderebbe il significato piú importante di quel mito: la contentezza che suscita ciò che è variegato e composito.

Dalla prefazione di Dominique Fernandez

Ferdinando Scianna
Kami: minatori sulle Ande boliviane
L’immagine, Milano 1988

L'accampamento dove vivono questi uomini e donne e bambini, questi minatori, ha nome Kami, come la montagna nella cordigliera delle Ande boliviane sui cui fianchi friabili, a oltre 3800 metri di altitudine, è precariamente aggrappato.
Generazioni di topi umani hanno scavato dentro la notte di queste montagne, quasi con la sola forza delle mani, per cavarne fuori oro, argento, stagno, antimonio, tungsteno, metalli che hanno reso splendidi imperi e creato la ricchezza strepitosa di pochi al prezzo della fatica immane e molto spesso della vita degli uomini e delle donne che vi hanno lavorato.
L'esistenza dei minatori, qui a Kami, come nelle altre miniere, ieri, quando ancora erano una grande realtà economica, come oggi che stanno chiudendo quasi tutte, è un vivere morendo. Quando non li uccide la fame, la fatica, la disgrazia, la silicosi, la tubercolosi, sono i fucili dei soldati al primo cenno di ribellione inviati per massacrarli (la Bolivia ha subìto 199 colpi di stato nei 160 anni della sua indipendenza).
Dalle miniere di Kami si estrae tungsteno, il wolfram un tempo molto pregiato se in anni non lontani riusciva qui a dare da vivere a oltre 10.000 persone; e si viveva bene, dicono i minatori, che confrontano la miseria di oggi
con la relativa abbondanza durata fino alla metà degli anni sessanta. Ma il mio mestiere è fare fotografie e le fotografie non possono rappresentare le metafore. Le fotografie mostrano, non dimostrano, e quelle che pretendono di dimostrare sono quasi sempre cattive fotografie. Ma non è il caso di impantanarsi in discorsi teorici: io ho voluto, con queste fotografie, raccontare la vita della gente di Kami. Certo, l'ho fatto in questo modo, attraverso le immagini che compongono questo libro, buone o cattive davvero non so. Ho soltanto fatto il fotografo, con umiltà, con orgoglio, cercando di utilizzare al meglio i miei strumenti di linguaggio.

Dalla prefazione di Ferdinando Scianna

Ferdinando Scianna
Le forme del caos
Art&, Udine 1989

Si tratta della morale? Non è, invece, forse, che Scianna preferisce selezionare disordini e in un certo senso allontanarli da ogni realismo sorprendente o truculento? Non sarà che tutte le fotografie di Scianna, anche quelle in esterni che catturano al volo le cose e i gesti, sono foto di studio, perché tutto e tutti, in certo senso, posano per lui? L'ammessa passione per Cartier-Bresson e la teoria dell"`interesse umano" ce lo colloca tra le file della comunicazione libertaria, libertà di fotografare, libertà di leggere, voltando le spalle ai traffici codificazione-decodificazione dei semiologi. La semiologia è quella scienza che innanzitutto spiega perché i tavoli con quattro gambe sembrano avere quattro gambe e quale luogo occupa questa costatazione nella scala comparativa dell'iconicità decrescente o dell'astrazione crescente. Diventa difficile fotografare cercando quel punto di incontro tra l'iconicità che parte e l'astrazione che arriva e nella difficoltà Scianna si ferma all'opera aperta filtrata da una soggettività che il lettore rende oggettiva o ignora o falsifica e sempre modifica. Questo è tutto. Il linguaggio viene creato e rinnovato dagli artisti e dai lettori, mai dai decodificatori, diventati tribù di specialisti del fare a pezzi che comunicano tra di loro con telefonie che solo loro capiscono, apprezzano e di cui solo loro hanno bisogno. Tra quel Baudelaire che voleva le fotografie come serve e i semiologi che vi applicano termometri di figurativismo e iconicità, resta il tremore umano di Benjamin che vorrebbe che le fotografie si portassero sempre dentro l'anima dell'utopia, della colpevolezza determinista della realtà. Scianna analizza con uno sguardo anarchico che appone alle modelle la data di scadenza e nelle vittime luci di insurrezione.

A Scianna, uomo che ama la Letteratura quanto io amo la Fotografia, dava fastidio che Baudelaire fosse stato così cieco, così conservatore, così reazionario anche se, ben sapendo che lo stesso Nietzsche era un imbecille in questioni amorose, Scianna ammette che il talento possa essere unidimensionale e la condotta pluridimensionale. Comunque, è un boccone amaro fotografare pensando che Baudelaire non è d'accordo con il fotografo. Brecht ha detto di sì. Sciascia gli ha addirittura dedicato una prefazione. Benjamin lo ha profetizzato. Abraham Moles ecologizza e iconizza. Vittorini non rifiutava di sovrapporsi o divenire sovrapposto dall'immagine fotografica. Ma Baudelaire insiste nella sua diagnosi e pretende da lui, continuamente, che fotografi Nancy Reagan come contributo alla Storia della Chirurgia estetica o un quadro di De Chirico per trafiggerlo con uno spillone nei Dizionari enciclopedici o gli assetati bimbi etiopi ad illustrare una qualsiasi teoria della sete.
- Che facciamo di Baudelaire?
Me lo aveva chiesto tempo addietro, e gli risposi:
- Ignoralo
Ma Scianna scosse la testa mentre guardava l'oscuro, invisibile oggetto del suo desiderio. - Se la potessi fotografare!
E questa è l'unica impotenza del fotografo. Può fotografare la morte, ma soltanto se si mette in posa.

Dalla prefazione di Manuel Vazquez Montalban

Ferdinando Scianna
Las formas del caos
Contrasto, Roma 2000

Non ricordo precisamente quando - nel 1961, nel 1962 - Ferdinando Scianna, di cui mi aveva parlato un professore di storia medievale dell'Università di Palermo, venne a farmi vedere alcune sue fotografie di feste religiose siciliane.
Le sue fotografie, debbo dirlo, ebbero in me, non immediatamente ma per lenta presa di coscienza, l'effetto di farmi smettere di fotografare. Me ne ero dilettato fin da quando, per nove lire, avevo acquistato una macchinetta americana che chissà dove è andata a finire e che mi piacerebbe ritrovare. Avevo avuto poi altre macchinette, fermandomi a una Zeiss che rendeva niente male, ma che di più avrebbe reso in altre mani e attraverso altro occhio. Del mio smettere di fotografare Scianna un po' si fa cruccio: sicché mi regala di tanto in tanto macchine fotografiche sempre più perfette. E questo per dire fino a che punto siamo diventati amici: da credere, lui, che io possa essere fotografo; e da consegnarmi, io, all'inibizione di far fotografie, avendo visto e vedendo le sue e più volte accompagnandomi al suo fotografare, in tanti Paesi della Sicilia e dell'Europa. Che è, il suo fotografare, quasi una rapida, fulminea organizzazione della realtà, una catalizzazione della realtà oggettiva in realtà fotografica: quasi che tutto quello su cui il suo occhio si posa e
il suo obiettivo si leva obbedisca proprio in quel momento, nè prima nè dopo, per istantaneo magnetismo, al suo sentimento, alla sua volontà e - in definitiva - al suo stile. E sarà, credo, peculiarità di ogni vero fotografo, Cartier-Bresson al vertice; ma è di lui, per diretta e ripetuta esperienza, che posso testimoniarlo. E per esempio: viaggiando con lui per le strade di Spagna, frequentemente avveniva che fermasse di colpo l'automobile e rapidamente facesse marcia indietro per cogliere qualcosa o qualcuno su cui il mio occhio tanto inavvertitamente era passato che proprio al momento in cui puntava il suo obiettivo pareva come sorgere dal nulla, materializzarsi come per evocazione, rendersi al significante.

Dalla nota di Leonardo Sciascia

Ferdinando Scianna
Leonardo Sciascia
Ore di Spagna
Pungitopo, Messina 1988

Horas de Espana
Tusquets Editores, Barcelona 1990

Ore di Spagna
Bompiani, Milano 2000

Qualche anno fa, rileggendo l’Antimonio per il convegno Scrittori di Europa a confronto con la guerra civile spagnola, mi sono ricordato di tutte le altre pagine che sulla Spagna, sulla sua cultura, aveva scritto Leonardo Sciascia. Ho subito pensato di proporgli di riunirle in volume; ed oggi la maggior parte di esse rivede la luce nell'edizione della Pungitopo di Marina di Patti, con il titolo appunto, Ore di Spagna, che vuol dire tempo trascorso in Spagna, tempo dedicato allo studio della storia e della cultura spagnole. L'occasione è fatta più accattivante dalle straordinarie fotografie di Ferdinando Scianna, molte delle quali scattate in un recente viaggio compiuto in compagnia del grande amico Leonardo.
Come già nel racconto del 1961, in queste pagine, in una sorta di trasversale giuoco di specchi, la Sicilia si riflette nella Spagna e la Spagna nella Sicilia.
Propriamente un viaggio, anzi, nelle cose e nel tempo, nella letteratura e nella storia, nell'attuale realtà della Spagna.
In dieci capitoli acuti e fervidi, che incuriosiscono e appassionano, Leonardo Sciascia attraversa il mondo spagnolo, rivisitandolo, ri-conoscendolo, con una lettura che senza voler essere totale risulta tuttavia esemplare. Se nel testo di Sciascia le cose e i personaggi diventano parola, bellezza, a riscontro, nelle fotografie di Ferdinando Scianna, con autonoma originalità, le persone, gli oggetti, i luoghi, diventano figure, altra bellezza. Come, ad altro proposito, dice Sciascia d'Ortega y Gasset, sembra che nel molto viaggiare, nel molto conoscere il mondo, il tema della Spagna, come memoria e visitazione, duplice o triplice conversazione, si sia qui configurato come il tema dei temi.

Dalla nota di Natale Tedesco

Ferdinando Scianna
La scoperta dell'America
Centro culturale Pasolini, Agrigento 1988

Nei numerosi anni in cui ho lavorato come reporter e inviato per il settimanale L'Europeo ho viaggiato per il mondo intero, ma raramente sono andato negli Stati Uniti. C'erano i corrispondenti e l'America era un po'terreno riservato.
Insomma, la mia vera prima volta in USA, specialmente a New York, è stato nel 1985, per partecipare a uno dei miei primi meeting di Magnum. Non ero più un ragazzo, ma ho vissuto quell'incontro con l'America con fortissima emozione adolescenziale. Per quasi un mese ho girato per la città incantato, spaventato, stupito, sedotto. E facendo fotografie, per il puro piacere di farle, senza altro scopo e senza alcun cliente o progetto cui rendere conto. Settimane felici, di felice fatica. Ho poi calcolato che avrò percorso a piedi in quel mese, seguendo solamente da mattina a notte il mio naso e la mia curiosità, almeno 400 chilometri.
Per molto tempo non ho fatto nulla con quelle fotografie. Salvo riguardarle. E con diffidenza, con autoironia. Non le mostravo nemmeno. Figurarsi, con tutti i mostri sacri che avevano fotografato in America, a New York! Soltanto qualche anno dopo ho cominciato a mostrarne qualcuna di quelle immagini e ci feci anche una piccola mostra ad Agrigento che chiamai sarcasticamente La scoperta dell’America. Me ne sono rimasti soltanto un paio di cataloghi. Si dimenticarono di conservarmeli. Eppure, molti anni dopo, e molti viaggi americani dopo, ho cominciato a guardare e a riguardare quelle fotografie con meno pessimismo e quel piccolo catalogo ho cominciato a considerarlo il seme del libro che vorrei fare, che da allora continuo a progettare su New York e gli Stati Uniti.

Testo di Ferdinando Scianna

Ferdinando Scianna
Leonardo Sciascia fotografato
da Ferdinando Scianna

Sciardellli, Milano 1989

Infatti, l'icona cerca sempre di riappropriarsi della fotografia. Non è il fotografo un fuggiasco. Anzi, è come se esseri e cose rifuggissero da lui e il suo gesto volesse riafferrarli, perciò è anche pronto a fare il giro del mondo a rincorrerne frammenti in modo da restituirceli intatti. Ma l'istante che non è volato via. trattenuto nella camera oscura in geroglifici di luce, siamo sempre tentati di credere che presentifichi l'eterno o, per lo meno, in qalche caso, il senso di una vita. Da questa visione delle cose ci allontanano le foto di Scianna.
Anzitutto Perché afferrano il corpo di Sciascia in movimento. Un uomo cammina: tra una teca e due bambini; per la strada di un paese siciliano; circondato da fiorami e arabeschi napoletani; in mezzo a rovine... Un andare, una andatura spontanea eppure mai naturale; l'istante è vero perché sorprende. Il movimento dice anche che corpo e anima sono legati l'uno all'altro. Anzi, il movimento è quel legame. E l'emozione è il movimento dell'anima: il corpo vi resiste o l'asseconda; sempre la rivela. Sagoma stranamente aerea, modellato del viso, faccia massiccia e inquieta.

Dalla prefazione di Claude Ambroise

Ferdinando Scianna
Jorge Luis Borges fotografato
da Ferdinando Scianna

Sciardelli, Milano 1999

Borges è nato nel 1899, sul morire del secolo, nel pieno centro di Buenos Aires. Ma i suoi primi ricordi risalgono a pochi anni dopo, quando la sua famiglia si trasferì in una piccola casa con due patio della periferia povera della capitale nel quartiere chiamato Palermo. E a Palermo io l'ho incontrato. Non, però, nella Palermo che designa l'ormai irriconoscibile quartiere bonearense dell'infanzia di Borges, ma in Sicilia, dove lo scrittore si è recato per ricevere un premio e per compiere un viaggio in un luogo per lui così ricco di memorie letterarie e di echi spirituali. Borges è cieco, lo è da trent'anni. Il suo universo fisico è ormai da molto tempo un'oscurità attraversata da rare ombre e brevi lampi di colore, ma popolatissima di ricordi letterari, di frasi, di versi, di personaggi e soprattutto dei fantasmi della sua costante, fervida immaginazione. Incontro Borges sulla terrazza del suo albergo davanti a un nitido mare. La giornata è radiosa. La primavera, così bizzarra quest'anno anche in Sicilia, sembra avere fatto un'eccezione per Borges. Lui sembra bere quella particolare fragranza dell'aria, dice di sentire che il cielo deve essere azzurrissimo, si volge verso il sole la cui luce ignora, ma di cui sente il calore e comincia a declamare: "Dolce color d'oriental zaffiro... Dante, Purgatorio, canto primo", precisa con un sorriso timido. Il suo amato Dante. La Commedia, che in gran parte conosce a memoria. Quel verso lo ripete più volte, assaporandolo. Poi ne cita altri, di D'Annunzio, di Marino, sempre sul colore del cielo. È la sua maniera di fare omaggio al paese che lo ospita, recitare i versi dei suoi poeti.

Dalla prefazione di Ferdinando Scianna

Ferdinando Scianna
Ignazio Buttitta
Sciardelli, Milano 2000


Ignazio Buttitta, un poeta da sentire e da vedere.

Ho scritto, trentasei anni fa, presentando l'edizione di Lu trenu di lu suli, che la poesia di Ignazio Buttitta (non tutta, d'accordo, e non la prima e neppure so dire se la migliore, ma certo quella che fa di lui un personaggio unico nella nostra cultura) fatica spesso a esprimersi compiutamente dal freddo della pagina stampata e reclama il calore della voce. Pensavo, soprattutto, ma non soltanto, alle « storie» composte da Buttitta per il cantastorie Ciccio Busacca e non mi era più possibile, dopo aver ricevuto quei versi recitati e cantati, rinunciare almeno all'evocazione di quella voce per coglierne l'emozione. E ogni volta, innanzi alla pagina stampata, emergeva ed emerge prepotente (e anzi aggressiva) la memoria (ancor oggi così viva) di una sera in una pizzeria di Bagheria (e c'era anche, molto giovane, Ferdinando Scianna, oltre che Ignazio Buttitta) con Ciccio Busacca che cantava appunto Lu treno di Iu sali, con la voce che ora si dispiegava ed ora si rompeva, ora s'apriva nel canto ed ora si chiudeva in uno straordinario recitar-cantando e le lacrime agli occhi. E gli occhi lucidi erano anche quelli di quanti, quella sera, erano con noi in pizzeria e di quanti non erano che normali clienti, lì capitati per mangiare una pizza. Ricordo che mentre la storia disgraziata dello zolfataro di Mazzarino si sviluppava subito mi tornarono alla mente le parole dedicate da Garcia Lorca alla grande Nina de los Peines, in un'altra straordinaria notte di Granada.

E così non posso rileggere la storia di Salvatore Carnevale, il sindacalista ucciso dalla mafia, senza rivivere le serate al Piccolo Teatro di Milano, quando appunto - era il 1956 - conobbi Buttitta, con Ciccio Busacca e Orazio Strano ad emozionare e sorprendere da un palcoscenico altre sere dedicato ad una così sofisticata arte teatrale, un pubblico, milanese e borghese, che di quel mondo dei cantastorie nulla sapeva e neppure aveva saputo, o potuto, o voluto fin'allora immaginare. Due storie, cantava Busacca, quella di Salvatore Giuliano, con il testo di Turiddu Bella, e quella di Salvatore Carnevale, con il testo appunto di Ignazio Buttitta.

Dalla prefazione di Roberto Leydi

Ferdinando Scianna
Marpessa, un racconto
Leonardo, Milano 1993

Ed.française Contrejour, Paris 1993

La prima volta che ho visto Marpessa è stato in una fotografia, una piccola foto della collezione autunno-inverno del 1987 che, a Milano, mi mostrarono gli stilisti Dolce e Gabbana. Erano appena agli inizi di una carriera che sarebbe rapidamente stata di grande successo e mi avevano chiesto di fare le fotografie per il loro catalogo. Non avevo mai fatto fotografie di moda. Di moda non sapevo nulla, ne di modelle. Mi mostrarono queste piccole foto di due ragazze. Indicai la mia preferenza per Marpessa. Inguainata in un lungo abito aderente, sprigionava una grande energia.
I vestiti che dovevo fotografare erano ispirati alla Sicilia. Domenico Dolce è siciliano come me e io, come fotografo, ero stato cercato proprio in virtù dei miei libri sulla Sicilia. Sono nato a Bagheria. Lì vivono mia madre e mia sorella. Ed e lì che decidemmo di riunirci. La sera, per ultima, ci raggiunse Marpessa. Non riesco a ricostruire con esattezza l'impressione che mi fece al primo impatto. Mi parve alta, piccolo come sono. Mi colpì il suo sguardo verde, splendente ma inquieto, imbarazzato, non so se leggermente sulla difensiva. Forse ero anch'io un po'sulla difensiva.
Ricordo con precisione pochissime cose di quanto è successo in quei giorni tra Caltagirone, Bagheria, Porticello, Palermo, tutti luoghi significativi, per altro, della mia infanzia e prima giovinezza in Sicilia. Memoria precisissima ho invece del sentimento che mi abitava mentre facevo quelle fotografie. Ed era, quel sentimento, di sorpresa. Fortissima sorpresa provavo per me stesso, che qualcosa che non avevo mai fatto prima, e avevo in sospetto, stavo facendo con passione, con felicità.
Una felicita, tuttavia, intorbidita da una inquietudine, un sentimento di colpa, quasi stessi violando, e con allegria per giunta, una regola, anzi, la regola, il grande tabù del mio fare fotografie fino a quel momento. Perchè nella mia etica ed estetica di fotografo era legge il rifiuto della messa in scena, della finzione, di qualsiasi intervento nello svolgersi della vita davanti a me che non fosse il solo mutamento del punto di vista mediante una silenziosa, quasi invisibile danza nello spazio, interrotta a tratti dalla scelta fulminea dell'istante, dello scatto, ad immobilizzare un frammento di tempo, forse di vita, contestualmente uccisa e salvata nelle forme che la esprimono.
Adesso, invece, ero lì, a dirigere, a chiedere a Marpessa di muoversi in un certo spazio, a cercare relazioni con le persone.

Guardando queste immagini, cominciai a capire che attraverso di esse avevo tentato un viaggio nella memoria della mia infanzia siciliana, scavando i resti archeologici dei sentimento della donna quale nei miei primi anni di vita si era incancellabilmente inciso.

Dalla prefazione di Ferdinando Scianna

Ferdinando Scianna
Altrove, reportage di moda
Motta, Milano 1995

Impassibile, il mondo andava per i suoi diversissimi versi. Si muovevano uomini, donne, bambini, e, in mezzo a loro, si aggirava lui, il fotografo, pronto a fissarli in un atteggiamento, un gesto, l'adempimento di un rito, l'abbandono del corpo. Saltellante, si spostava, più in alto, più in basso, a destra, a sinistra, come un insetto (la macchina fotografica è parte del suo corpo, con l'intero corpo, non solo con l'occhio, egli fotografa). Alle figure del suo balletto solitario, allo strappare ad ogni scatto istanti del mondo, poteva non essere indifferente la gente in mezzo alla quale si calava volteggiando. L'importante era rispettare l'imperativo categorico dei reporter, inseguendo, da puritano dell'obiettivo, il fantasma della obiettività del reale: non intervenire sul mondo che vedi, giacché sarebbe un barare con la realtà e con te stesso.

Era nel 1987. Dal Nord arrivò una donna, dall'Olanda via Milano, l'hanno portata Dolce e Gabbana. Marpessa è una modella: adesso si muove nelle strade di una città siciliana, mischiandosi a bambini, vecchie vestite di nero, ambulanti e giovinastri che si voltano. Entra nelle sale da barba, nelle case private. Al campo visivo sciannesco non sfuggirà più. Non avevano sbagliato i due giovani stilisti, tra i loro vestiti che s'ispiravano ad antichi
modelli siciliani e le foto di Scianna, molto probabilmente, esisteva una prestabilita armonia, a tal punto che l'immagine della stessa Marpessa stava sicilianizzandosi. La figura della modella, prima che i sarti ne facessero una loro creatura quasi esclusiva, era stata la donna dei pittori e degli scultori, in un rapporto tra arte e vita che incuriosiva i borghesi e stimolava la fantasia dei letterati. Ad una esperienza non priva di analogie ci riporta l'incontro di Scianna con Marpessa. Per i committenti, lei era la ragazza delle passerelle e dei rotocalchi mentre per il fotografo, andava, ad insaputa di ambedue, identificandosi con la modella degli artisti, in un rapporto che D'Annunzio e Pirandello, ciascuno a suo modo, avevano finto di rappresentare, forse per meglio mistificarlo.

Sempre tra chi crea e la sua modella, anche se questa è una idea platonicamente interpretabile come nel mito di Pigmalione, irrompe l'irrazionale. La modella non è un docile strumento, una pura passività: affascina, lega a sé e con sé trascina. Ciò può avvenire non solo sulla tela o nella creta, ma anche nel mirino di una macchina fotografica.

Dalla prefazione di Claude Ambroise

Ferdinando Scianna
Viaggio a Lourdes
Mondadori, Leonardo Arte Srl, Milano 1996

Ho sempre avuto, come fotografo, una grande passione per fotografare la gente in situazioni di ritualità sociale o religiosa. Il mio primo libroFesteReligiose in Sicilia, con un testo memorabile di Leonardo Sciascia, raccontava quel mondo e quelle situazioni. Avevo meno di vent'anni e uscivo da un'educazione cattolica. Dico uscivo, perché, dopo la prima giovinezza il mio rapporto con il sacro si è molto allontanato da ogni pratica ecclesiale per diventare esclusivamente interrogazione personale, privata. Ma una festa, un pellegrinaggio sono sempre un grande momento di celebrazione del sentimento collettivo di una comunità. È questo che soprattutto mi interessa. Ed è forse per questo che trenta e più anni dopo quel mio primo libro sulle feste, pellegrinaggi e manifestazioni religiose in Sicilia ho voluto misurarmi con uno dei luoghi chiave del cattolicesimo: Lourdes. Una delle ultime cose che ha detto mia nonna, come un rimpianto, è stato: "E non sono nemmeno andata a Lourdes!" Mia nonna è morta e io sono dunque andato a Lourdes al posto suo.
Con spirito libero, spero, da ogni pregiudizio, sia religioso che antireligioso. Soltanto il mio occhio, la mia macchina fotografica e una appassionatavolontà di capire. La mia idea del capire, oggi, che ho cinquan
taquattro anni, non è, non più, tesa esclusivamente a trovare risposte certe. Ormai so che per ogni domanda posta si hanno in ritorno molte nuove interrogazioni. Nel mio Viaggio a Lourdes di nuove domande ne ho trovate parecchie.

Testo di Ferdinando Scianna

Ferdinando Scianna
Città del mondo
Bompiani, Milano 1988

Ha scritto Paul Klee che la creazione vive come genesi sotto la superficie visibile dell'opera. A ritroso la vedono tutti i dotati d'animo gentile. Nel futuro, solamente i creativi. E questa un'affermazione che nel suo significato essenziale si attaglia bene al lavoro fotografico di Ferdinando Scianna, ed io l'adotto come seconda epigrafe per corroborare quella del nostro conterraneo Vittorini. L'adotto per mischiare, per misturare, natura e artificio, oggettività e linguaggio, cioè per fare la stessa operazione, o quasi, che fa Scianna in mille e mille risvolti del giorno e della notte, tagliando le immagini come si può tagliare un cordone ombelicale reso inutile dall'avvenuta nascita.
La sua è una chiamata alla vita, una decantazione del particolare dal tutto, un'elegia del particolare che diventa un tutto significante, suggestivo e carico di tensione formale.
New York, Los Angeles, Chicago, Parigi, Milano, Madrid, ma anche, Lione, Napoli, Bergamo, Nashville, Montecarlo e altre città del mondo e luoghi dell'anima, marchi indelebili impressi in un giorno, in un mese, in un anno, e poi in un altro giorno, in un altro mese, in un altro anno, per vedere cosa è cambiato, cosa non è cambiato.
Città come specchi, come riflessi di quello che siamo, di quello che non siamo. Riflessi delle paure e delle gioie, di quello che vorremmo avere e di quello che non vorremmo avere. Città dove ogni giorno si scorre la vita e si scorre la morte. Città imprigionate. Città immortalate. Città giocate. Imbrogliate. Esaltate. Annullate.

Dalla prefazione di Francesco Gallo

Ferdinando Scianna
Dormire forse Sognare
ART'&,Udine 1997

To sleep, perchance to dream
Phaidon,London 1997

Questa mania di fotografare gente che dorme l'ho scoperta per caso una quindicina di anni fa. Voglio dire che per caso mi sono reso conto che ero, come fotografo, e senza averne coscienza, preda di questa piccola ossessione. Non trovavo un negativo, come spesso capita ai fotografi disordinati, e per cercarlo fui costretto a fare uno di quei viaggi che tanto pavento tra i raccoglitori delle stampe a contatto dei negativi del mio archivio. Se la realtà è, come io credo, lo specchio del fotografo, e non viceversa, ripercorrere le decine di migliaia di immagini in tanti anni ricevute attraverso la macchina fotografica è come verificare, in un certo modo, quella terribile ipotesi di film immaginata da Vitaliano Brancati : una immagine al giorno del volto di un uomo, dalla nascita alla morte, per farne alla fine la vertiginosa proiezione di una vita. Ma questa vita è la tua. Perchè il dormire, mi hanno domandato, mi domandano?
Mi interessa ritrovare nelle mie fotografie un fatto così naturale, così quotidiano, cosi universale e che pure è rimosso, al quale ci si abbandona quasi di nascosto, di solito in luoghi protetti, perchè sappiamo che ci consegna inermi all'arbitrio altrui. C'è vita e morte nel sonno e nella fotografia. Tuttavia, la paradossale immobilizzazione di istanti immobili di animali o esseri umani dormienti non ha nulla a che vedere con una natura morta: ognuna di queste fotografie parla di vita.
Se non c'è sonno non c'è vita; lo sanno bene gli insonni o i mal dormienti che tanto desiderano dormire. Non sapremmo nemmeno che cosa significa essere svegli e all'erta se non ci fosse il sonno. Un uomo che dorme è un uomo vivo. Perchè il sonno non è soltanto il tempo del riposo, è anche la porta per entrare, o uscire, nell'oceano immenso del sogno, che c'è chi pensa sia la forma più intensa della vita.

Prefazione di Ferdinando Scianna

Ferdinando Scianna
Obiettivo Ambiguo
Testi sulla fotografia e i fotografi
Rizzoli, Milano 2001

Faccio fotografie da quarant'anni. Dalla Sicilia a Milano, a Parigi, dall'adolescenza ai miei cinquantasette anni di oggi, la fotografia è stata e continua ad essere per me una passione, la conquista di un linguaggio, l'occasione di incontri, lo strumento di un'avventura umana.

Ho avuto, come fotografo, fortuna credo superiore ai mie meriti.

Non si esercita un mestiere vissuto come passione senza riflettere sul senso di quello che si fa, senza costantemente confrontarsi con se stesso e con i propri numerosi maestri, senza vivere ed esprimere i propri entusiasmi e le proprie idiosincrasie.

Così, da quasi altrettanti anni, scrivo, anche, di fotografia e sulla fotografia, sui fotografi soprattutto.

L'ho fatto in maniera sporadica ma in certi periodi anche sistematica, sull'Europeo, su Photo, sulla QuinzaineLitterarie, suLui, Lei, sul supplemento culturale del Sole 24 ore, su vari giornali e riviste, per conferenze, seminari e corsi universitari.

La disposizione dei testi scelta per questo libro nasce in parte dall'avere scoperto, rileggendoli, che molti di essi corrispondevano a ricorrenti tematiche e a piccole ossessioni.

Quanto ai fotografi, Cartier-Bresson apre la lista non soltanto perchè lo considero il più importante fotografo del secolo e mio maestro per eccellenza, ma anche perchè la sua visione della fotografia mi ha fornito molti degli strumenti critici con cui oriento ammirazioni e dissensi. Segue Giacomelli, amico da poco perduto, perchè il suo modo di procedere come fotografo non avrebbe dovuto a priori incontrare il mio gusto e la mia adesione e al contrario considero molte sue immagini tra i risultati più alti della fotografia.
Questo mi ha stimolato a liberarmi da certi pregiudizi. Gli altri li ho disposti secondo arbitrari raggruppamenti o seguendo i sinuosi labirinti del caso, dei tanti innamoramenti, di qualche rifiuto, cercando di disegnare il ventaglio delle mie passioni.

Non ho cambiato i giudizi che esprimevo quando ho scritto gli articoli, anche se su qualche fotografo, rispetto alle opinioni che ritrovo, sono scemati gli entusiasmi e su altri vado rivedendo le riserve. Ma se qualche volta ritrovo mutato un poco il gusto, mi sembra siano rimasti costanti i criteri del giudizio.

Non pretendo affatto che questi scritti abbiano il senso di un'attività di critico fotografico. Non sono nemmeno un repertorio esaustivo dei fotografi che amo. Troppi ne mancano, classici e contemporanei, piccoli e grandi, per i quali non soltanto nutro ammirazione e amicizia ma considero maestri.

Quasi sempre questi articoli sono stati occasione per chiarire a me stesso come cambiavano o si confermavano le mie opinioni rispetto a certi problemi, per definire il giudizio sul lavoro degli altri, per cercare di capire il mio, per "situarmi" rispetto al mio mestiere e al mondo, per comunicare le mie ammirazioni, per polemizzare, qualche volta, e non soltanto sulla fotografia. Perchè la fotografia - linguaggio centrale, io credo, della modernità - non è soltanto un modo di vedere, ma di sentire anche, di pensare il mondo e la vita.

È questo il senso che per me ha scrivere, specialmente, si capisce, a proposito del mio mestiere.

Dopo molti anni, dunque, ho deciso di mettere insieme una parte di questi articoli in un libro. Il titolo, Obiettivo ambiguo, l'avevo trovato insieme a Leonardo Sciascia, mio angelo paterno, per una rubrica che mi era stata proposta da una rivista. Mi sembra che assomigli un poco al filo conduttore, se ce n'è uno, che si potrebbe tirare fuori da queste riflessioni.

Ttto, diceva Alberto Savinio, prima o poi finisce in un libro.

Dalla prefazione di Ferdinando Scianna

Ferdinando Scianna
Il grande quadro, storia di una mostra
Tabanelli, Milano 2002

In definitiva, in che cosa consiste il mio lavoro di fotografo? Guardare cercando di vedere. Guardare sperando di vedere. Le proposte, mi dico, sono occasioni che bisogna sapere cogliere, oltre che rifiutare. Un artista, Sandro Martini, una mostra, un grande quadro, inusuali ricerche di immagini incise, un racconto. Questa è la proposta. E io, il fotografo, che faccio? Mi torna in mente una frase di Puskin, dimenticata da oltre trent'anni, che avevo visto sul muro dello studio romano di Guttuso; "Racconta e non fare il furbo". A un certo momento mi rendo conto che Martini ha incluso anche me nel suo paesaggio rituale. I miei gesti li usa come "riflesso" di quel referente cui tutto contribuisce: il lavoro di Luca, le sue tacite approvazioni o suggerimenti, le cazzate che dice la radio accesa o che dico io e a cui Sandro reagisce, e la mia presenza di fotografo, naturalmente. Un artista sente tutto, vede tutto, tutto mastica e digerisce, di tutto opportunisticamente si serve per quello che sta facendo. Lo spettatore c'è sempre, presente o futuro, reale o potenziale, a verificare la vanità dell'autore, o il bisogno di comunicare, che forse sono la stessa cosa. Altrimenti non ci sarebbero opere. Agli artisti basterebbe pensarle e sognarle.

Ferdinando Scianna

Ferdinando Scianna
Mondo Bambino
Arte a Stampa, Milano 2002

Niños del mundo
Domus, La Corona 2000

I bambini ci guardano. Ce ne avvertì Zavattini.
Li guardiamo, dunque, i bambini. Ma come li guardiamo? E soprattutto: li vediamo? Sappiamo vederli?
È una domanda che mi sorge un po' inquieta nel riguardare le cento fotografie che ho scelto per comporre questo volume. Ho fatto anch'io, moltissime ancora ne faccio, troppe fotografie da papà fotografo per non sapere che la maggioranza di quelle immagini non raccontano tanto i nostri bambini, quanto piuttosto costituiscono messe in scena dell'idillio, gesti rassicuranti per noi stessi, su come noi immaginiamo che essi siano, i bambini, su come vorremmo che fossero i nostri rapporti con loro. Immagini per tentare di esorcizzare o occultare il fatto che i bambini anche loro ci guardano, assai probabilmente ci vedono, e impietosamente. Non quella domanda dunque, ma la domanda che può porsi uno che il fotografo lo fa di mestiere da quarant'anni e ogni tanto recupera, per un libro, per una mostra, fra centinaia di migliaia di scatti i pochi che spera si siano salvati dal naufragio nella bruttezza o nell'insignificanza.

Che cosa è dunque che rende tanto interessante, appassionante il variegato e contraddittorio mondo dei bambini, che ce li fa guardare, osservare, esplorare senza tregua? L'inesauribile spettacolo che per oltre quarant'anni non ha mai cessato di affascinare la mia curiosità di uomo e di fotografo? Ecco, io sono andato convincendomi che la ragione sta nel fatto che ogni bambino, ogni suo gesto di vita contengono uno straordinario potenziale di racconto, di romanzo. Già Valery, proprio parlando di fotografia, disse che tutto il resto, ovvero tutto ciò che sta oltre il visibile, è letteratura. Roland Barthes commentando una fotografia di Andrè Kertesz in cui vediamo un bambino fotografato all'inizio del secolo al suo banco di scuola ungherese non può impedirsi di chiedere: ma come sarà stata la sua vita? Che uomo sarà diventato, che cosa avrà fatto? È morto, vive ancora? Che romanzo! Già, che romanzo!

Dalla prefazione di Ferdinando Scianna

Ferdinando Scianna
Quelli di Bagheria
Galleria Gottardo, Lugano 2002

Quelli di Bagheria
Peliti Associati, Roma 2003


Ricordare è lo stesso che immaginare
Federico Campbell El Alfabeto Morse

Ho visto finire e cominciare un mondo, e i caratteri contrari di questa fine e di questo inizio sono mescolati nelle mie opinioni. Mi sono trovato tra due secoli come alla confluenza di due fiumi.
Chateaubriand:Memorie d'oltretomba

Solo chi ha un villaggio nella memoria può avere una esperienza cosmopolita. Ernesto De Martino Da un'intervista radiofonica

Chiesero a Guttuso: "Come si chiamano gli abitanti di Bagheria?" Ci chiamano in due modi, rispose: Bagheresi o Baharioti. Non so che differenza ci sia, ma io sono baharioto.

Finché non ho scoperto che a Bagheria, in provincia di Palermo, il mio odiatoamato paese, in quello spazio di poco più di dieci chilometri quadrati dove ho vissuto praticamente senza mai muovermi fino alla prima giovinezza - che non era solamente un luogo fisico ma un davvero ben particolare, dolce e terribile "luogo dell'anima" - avevo fatto tante fotografie, ben più numerose di quanto non sospettassi, e ben da prima che scoprissi l'incomprensibile "vocazione" di fare il fotografo. Fotografie che per una strana rimozione avevo quasi dimenticato senza dimenticarle affatto, sapendo benissimo che c'era quella cassettina di legno che aveva contenuto bottiglie di vino e che nella cassettina c'erano - e vi sono rimasti per oltre trent'anni - molti dei miei primi negativi, tenuti alla rinfusa e dei quali spesso non avevo nemmeno stampato i contatti.

Ho sempre considerato molle, ipocrita, fortemente egoista la nostalgia. Non mi appartiene. Mi appartiene, invece, e mi sembra di scoprirla anche nelle mie fotografie più vecchie, ancora adolescenziali, la consapevolezza di avere vissuto -che in quegli anni stavo vivendo-un passaggio storico e culturale epocale. È ormai un luogo comune, già approdato alle definizioni storiche del nostro tempo, che in questi quarant'anni la vita delle persone, il loro paesaggio fisico e culturale, di conseguenza la loro maniera di essere, pensare, sentire, è cambiata più che nei precedenti duemila. Al tempo lento e lungo si è sostituito il tempo tecnologicamente e forsennatamente accelerato che stiamo ancora vivendo.
Ne conosco che ne sono impazziti.

Io credo nella memoria. Potrebbe uno che fa il fotografo non crederci? A parte tutto, mi è sembrato, recuperando certe immagini, che dentro ci fosse già tutto quello che ho continuato a fare nei successivi quarant'anni,
Ma non si ricorda solo per se stessi, si ricorda per tutti.
Ho tentato con questo libro, che mi è sembrato il più difficile fra quanti ne ho fatti, ma anche il più appassionante da fare, e spero anche il più sincero, di scavare, come Sciascia suggeriva, nella "camera oscura" della memoria attraverso le mie stesse fotografie, riportandone frammenti verbali a loro volta simili a istantanee.
Ho cercato di ricostruire, di immaginare, il mio paese, la mia infanzia, la mia adolescenza, in quel tempo, in quel luogo.

Dalla prefazione di Ferdinando Scianna

Ferdinando Scianna
Sicilia Ricordata
Rizzoli, Milano 2001

Fotografare la Sicilia è per me quasi una ridondanza verbale. Ho cominciato a fotografare intorno ai diciassette anni e la Sicilia era là.
Ho cominciato a fotografare perché la Sicilia era là.
Per capirla e attraverso le fotografie per cercare di capire, forse, che cosa significa essere siciliano. Interrogazione ossessiva questa dei siciliani su se stessi e la terra cui appartengono. Interrogazione che continua, forse ancora più ossessivamente, quando dalla Sicilia si va via. E andarsene via ed essere siciliani è stato per tanto tempo, molto lo è ancora, quasi la stessa cosa.
Quando si parte comincia il rovello della nostalgia, della trasfigurazione dei ricordi, dei ritorni tanto più sognati quanto più impossibili. Fino a trasformare tutto questo in rancore, quasi in un'altra fuga. Si cerca di dimenticarla la Sicilia buttandosi ad interrogare ed esplorare il mondo per poi scoprire che lo sguardo che posiamo sul mondo è inequivocabilmente quello dei tuoi occhi di siciliano. Per me, forse per tutta la generazione cui appartengo, il tema del ricordo credo fosse, per quanto affatto inconsapevole, presentissimo anche quando ci vivevo in Sicilia. Ancora di più dopo avere incomprensibilmente incontrato la fotografia, così inestricabilmente legata al sentimento struggente di ciò che scompare.
Non soltanto sapevamo che saremmo andati via, ma anche intuivamo che il mondo che stavamo per lasciare anche lui sarebbe andato via e sarebbe scomparso per sempre. Così è stato. Il ritorno è diventato doppiamente impossibile. Noi siamo cambiati e la nostra Itaca è scomparsa, come l'illusoria isola Ferdinandea. C'è quella di oggi, certo, viva, forte, tragica, nostra anche questa. Ma quella che ci ostiniamo a cercare è l'altra, quella che non c'è più, quella cui senza rimpianto alcuno apparteniamo. Sicilia ricordata, dunque, declinata fin da subito "all'imperfetto dell'obbiettivo".

Dalla nota di Ferdinando Scianna